Il poster «Bring them back», riportateli indietro, il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ce l’ha sotto il naso. Di fronte alla sua residenza, al numero 35 di Azza Street (Via Gaza, vuole il fato), ne hanno appeso uno, promemoria giornaliero. Un altro lo hanno legato a uno dei balconi della palazzina in cui vive.

Grigia e decadente, non diresti mai che lì dentro ci abiti un primo ministro. Lo dice la sicurezza fuori, metal detector, guardie armate, barriere metalliche.

È QUI che si ritrovano spesso i familiari dei 136 ostaggi ancora a Gaza, almeno 32 uccisi secondo le ultime dichiarazioni ufficiali. È anche a loro che ieri il premier si è rivolto nella conferenza stampa serale, seguita all’incontro – l’ennesimo – con il segretario di stato Usa Antony Blinken.

Si è rivolto a loro per dirgli che si mettano pure l’anima in pace: nessun negoziato con Hamas. Il premier è apparso in tv alle 19.30 ora locale per un lungo giro di parole che ha preferito al «no» secco un rifiuto implicito: la vittoria «decisiva» è «nelle nostre mani, è una questione di mesi»; «Non c’è altra soluzione» alla distruzione totale di Hamas, le cui proposte non sono altro che la strada «verso un altro massacro».

Alla fine, concessione senza molto senso, ha detto che un accordo prima o poi ci sarà ma che non potrà che fondarsi sul completo annientamento del movimento islamico palestinese.

Loro, le famiglie e gli ex ostaggi, hanno risposto a stretto giro con una nota: «Il prezzo dell’abbandono peserà su generazioni a venire». In lacrime, Adina Moshe, liberata a novembre, ha puntato il dito: «Mr. Netanyahu. è tutto nelle tue mani. Se continuerai con il tentativo di smantellare Hamas, non ci saranno più ostaggi vivi da salvare».

Sul tavolo c’era la proposta di Hamas per la tregua. La «positive response» di cui parlava il Qatar martedì sera si è concretizzata ieri quando la stampa di tutto il mondo ha pubblicato l’idea che il movimento ha di un accordo conveniente: tre fasi, 135 giorni di tregua, rilascio degli ostaggi israeliani e di migliaia di prigionieri palestinesi. E soprattutto la costruzione di un percorso verso il cessate il fuoco permanente.

OGNI FASE durerebbe 45 giorni. Nella prima Hamas rilascerebbe tutti gli ostaggi sotto i 19 anni, le donne, i malati e gli anziani in cambio di tutti i prigionieri palestinesi bambini, donne, malati e anziani nelle carceri israeliane e del ritiro delle forze israeliane dalle aree più popolate di Gaza.

Nella seconda tutti gli ostaggi maschi, compresi i soldati, in cambio del ritiro definitivo delle forze di terra israeliane e della libertà per 1.500 palestinesi maschi (è qui che si gioca la posta più politica, la liberazione di detenuti «di peso», leader delle fazioni palestinesi più note, da Fatah al Fronte popolare). Nella terza, spazio alla ricerca di un accordo per la fine della guerra e alla riconsegna da parte di Hamas dei corpi degli ostaggi uccisi nei raid.

Nei quattro mesi e mezzo di tregua, Israele dovrà permettere l’ingresso giornaliero di 500 camion di aiuti. A latere, anche una richiesta su Gerusalemme: il ritorno della Spianata delle Moschee allo status pre-2002 (prima della camminata di Ariel Sharon che incendiò gli animi e accese la Seconda Intifada).

Poco dopo la pubblicazione dei dettagli, al Jazeera ha intervistato Muhhamad Nazzal, membro anziano del politburo di Hamas: «Nessuno di questi punti è aperto al compromesso. La macchina di morte israeliana deve essere fermata. La nostra risposta è realistica e le nostre richieste ragionevoli».

LA VEDE diversamente il governo israeliano, almeno ufficialmente: mentre Netanyahu parlava, al Cairo il team di negoziatori, con il Mossad in testa, continuava nel dialogo.

Sul fronte statunitense – mentre il segretario di stato Usa Blinken stava chiuso in ufficio con Netanyahu a ripetergli a vuoto che «la creazione di uno stato palestinese è il modo migliore per assicurare pace e sicurezza» – funzionari anonimi riferivano della possibilità di giungere a un accordo, non subito, non a giorni, ma «nelle prossime due settimane».

Le distanze rimangono su contenuti reali, al di là della retorica urlata da Bibi. A partire dalle tempistiche: Israele vuole pause temporanee e non una tregua di lungo periodo, né tanto meno permanente. L’Israele di Netanyahu non vuole la fine della guerra. Lo sa Washington che prova a gettare ottimismo sul fuoco, senza ottenere – finora – nulla. Bibi docet.

E lo sanno i palestinesi di Gaza, da quattro mesi in trappola, costretti a vagare da un punto all’altro della Striscia sperando che esista un luogo sicuro che sanno non esistere. La pioggia di questi giorni ha riempito i crateri delle città e le voragini, grandi e piccole, delle strade.

Gaza, un uomo ferito tra le macerie dopo un bombardamento a Rafah, foto Ap
Gaza, un uomo ferito tra le macerie dopo un bombardamento a Rafah, foto di Abed Rahim Khatib /picture-alliance /Ap

I bambini bevono anche da lì, ieri le immagini giravano ovunque, mentre l’Ocha, l’agenzia Onu per gli affari umanitari, dava i numeri della politica israeliana della pressione sui civili: di 61 missioni dirette verso il nord di Gaza solo 10 sono state facilitate dalle istituzioni israeliane, 2 parzialmente, 34 del tutto negate e sei posposte.

Gli aiuti che sono dentro non raggiungono le zone più devastate, quelli fuori vengono sequestrati da manifestanti israeliani furiosi che da due settimane bloccano Kerem Shalom perché ritengono amorale far arrivare medicine e cibo a civili che stanno morendo di fame e malattie.

MARTEDì, dice Channel 12, sono riusciti a impedire il transito a 132 camion umanitari; ieri hanno montato le tende ed eretto una sorta di barricate di filo spinato e tubi di ferro.

Al di là del muro, intanto, i numero dei palestinesi uccisi – quello ufficiale, degli identificati – sale a 27.708, di cui quasi 12mila bambini, una mattanza. Il terrore soffoca Rafah, dicono i racconti dei giornalisti sul posto.

Ieri Netanyahu ha parlato anche alla città lievitata, quadruplicata per l’arrivo degli sfollati: ha dato ordine all’esercito di avanzarci sopra, ignorando sia gli appelli Usa dietro le quinte, sia quelli pubblici del segretario generale dell’Onu Guterres.

Stretti tra l’invasione via terra e il muro con l’Egitto, lo spazio è finito: centinaia di migliaia di palestinesi sono ammassati in campi piccoli, tra fango e fame, ad attendere le decisioni dall’alto, di coloro che il massacro la avrebbero potuto fermare mesi fa.