Gli scossoni dell’invasione russa in Ucraina nel subcontinente latinoamericano non si son fatti sentire solo a Caracas, dove per la prima volta alti funzionari statunitensi sono ritornati per discutere di petrolio, guadagnandosi il compiacimento di Nicolás Maduro (e il biasimo dell’oppositore trumpiano Juan Guaidò). Anche nel pur irrilevante e dimenticato Nicaragua, talvolta alla ribalta per la tragica condotta autarchica di quello che fu un comandante de la revolución, il clan degli Ortega sarebbe tentato di agganciare l’arcinemica amministrazione Biden.

Dopo la sollevazione popolare repressa nel sangue quattro anni orsono, il Nicaragua è sprofondato in un soffocante isolamento internazionale, economicamente aggravato dall’inesorabile venir meno degli aiuti del Venezuela chavista. Che ha provocato l’emigrazione ormai di ben oltre centomila nicaraguensi, per motivi politici e ancor più di sopravvivenza.

A poco servono nel concreto le sponde enunciate della Russia, con Daniel Ortega fra i più schierati con Putin (sin dai tempi dell’Ossezia e dell’Abkazia) che il giorno stesso dell’intervento in Ucraina riceveva il presidente della Duma; o della Cina con cui Managua ha aperto relazioni diplomatiche dopo la rottura con Taiwan. Gli Stati Uniti, vogliasi o no, restano il partner commerciale preponderante del Nicaragua, con cui condivide pure il Trattato di Libero Commercio centroamericano (Cafta).

Per questo Laureano Ortega, figlio di Daniel e della copresidente Rosario Murillo, già incaricato (col fratello Rafael) di delicate missioni a Mosca e Pechino, avrebbe avanzato la disponibilità per una trattativa sulle sanzioni Usa ad personam che colpiscono soprattutto i patrimoni della sua famiglia (oltre che dei capi di esercito e polizia) in cambio della liberazione di alcuni dei 177 prigionieri della più variegata opposizione; peraltro in pessimo stato di salute per le disumane condizioni carcerarie, di cui è rimasto vittima per primo l’ex generale sandinista dissidente Hugo Torres.

Ortega, che nel 2018 si era inventato la tesi del “tentato golpe Usa”, instaurò in realtà un patto di “finta belligeranza” con la presidenza Trump assicurandogli che quegli imprevedibili giovani ribelli li avrebbe “controllati” lui. Tanto che l’allora inquilino della Casa Bianca adottò blande misure di facciata contro il Nicaragua. Del resto a Washington è risultata sempre rassicurante la sciagurata alleanza di Ortega con l’oligarchia locale, all’insegna del sommarsi ad essa nelle ricchezze. Intesa che vige tutt’oggi con le due famiglie che contano di più: i Pellas e gli Ortíz-Gurdían, dopo che alcuni oligarchi “traditori” sono finiti in galera o fuggiti all’estero.

Ebbene, l’avvento del democratico Biden aveva subito portato a un inasprimento delle sanzioni, costringendo il doppiogiochista Ortega alla sola retorica pseudo-antimperialista. Ma l’accelerazione degli eventi delle ultime settimane rischia di non far tornare più i conti: il voto all’Onu per l’apertura di un’investigazione sulla violazione dei diritti umani in Nicaragua (sostenuta anche dai paesi latinoamericani progressisti), la marginalizzazione all’interno dell’Organizzazione degli Stati Americani (Osa), la condanna unanime dell’Unione Europea, con (da ultimo) Russia e Cina in tutt’altre faccende affaccendati, hanno generato reazioni scomposte di un regime che comincia a perdere pezzi, col rischio d’implodere.

Come la clamorosa cacciata del nunzio vaticano Stanislaw Sommerstag, deplorata dalla Santa Sede; l’espulsione del responsabile del Comitato Internazionale della Croce Rossa, Thomas Ess, impegnato a vegliare sullo status dei detenuti politici; le dimissioni-denuncia del rappresentante nicaraguense presso l’Osa, Arturo McFields seguita, come reazione, dalla confisca della stessa sede dell’Osa a Managua; e la rinuncia da consulente giuridico dell’avvocato statunitense Paul Reichler presso la Corte internazionale dell’Aja, che nel 1986 era riuscito a far condannare gli Usa per la posa di mine nei porti nicaraguensi per mano della Cia, e che ha definito l’Ortega di oggi un “dittatore” e “bandito”.

Fino alla spiazzante svolta del possibile aumento dell’estrazione del greggio da parte del Venezuela (membro dell’Opec) sollecitata dagli Usa (che hanno ottenuto intanto da Maduro la liberazione di due cittadini statunitensi incarcerati). Il tutto ha agitato le dinamiche all’interno del nutrito casato del 76enne Ortega. Tanto da indurre il figlio Laureano a ricercare (conferma il New York Times) un abboccamento col “gigante del nord”.

Per non parlare di qualche figuraccia che ha a che vedere pure con il nostro paese. Come la protesta a suon di “abbasso la tirannia” inscenata a Ottawa da un gruppo di esuli nicaraguensi in un’attività ufficiale di promozione del turismo, dove ha fatto capolino Maurizio Gelli, figlio del “venerabile” Licio, che Daniel Ortega ha nominato ambasciatore in Canada, dopo esserlo stato in Uruguay.

O l’infelice visita che ha realizzato il presidente della commissione esteri del senato, Vito Petrocelli, all’ambasciatrice nicaraguense a Roma, Monica Robelo Raffone, figlia di quell’altrettanto ex diplomatico in mezza Europa, Alvaro Robelo, che fu fratello massone di Roberto Calvi nella loggia di Andorra quando il banchiere nostrano investiva a Managua ai tempi della dinastia dei Somoza. Visita, quella del senatore grillino, ostentata sui media locali di regime alla disperata ricerca di ogni minima legittimazione esterna.

Del resto, curiosamente, lo stesso quarantenne Laureano Ortega è ben conosciuto in Versilia, da quando si perfezionò come tenore al Festival Puccini di Torre del Lago. Dove la stampa locale lo celebra già come successore del padre alla presidenza del Nicaragua.