Internazionale

Il «multipolarismo» fuori, la tolleranza zero in casa: è il modello Lukashenko

Lukashenko e Putin al vertice di Minsk, foto Sputnik via ApIl presidente bielorusso Lukashenko insieme a Putin a Minsk, nel dicembre 2022 – Ap/Pavel Bednyakov

Bielorussia In un'intervista il leader bielorusso parla di pace. Poi nelle prigioni rinchiude 1.496 detenuti politici

Pubblicato circa un anno faEdizione del 24 agosto 2023

Lukashenko gioca al «grande mediatore». Dopo essersi accreditato (apparentemente) come colui che ha riportato alla ragione Prigozhin durante l’ammutinamento della Wagner, la scorsa settimana il presidente bielorusso ha rilasciato una lunga intervista sulla guerra in Ucraina in cui sembra usare nei confronti del paese aggredito il classico metodo del bastone e della carota: «Il conflitto era evitabile e lo si può fermare in qualsiasi momento», ha detto alla giornalista Diana Panchenko.

Aggiungendo però: «Se non lo si fa ora, sarà molto peggio per l’Ucraina». Ovviamente, secondo colui che viene spesso definito «l’ultimo dittatore d’Europa», la responsabilità della guerra sono da attribuire quasi esclusivamente alla leadership di Kiev (per non aver colto l’occasione degli accordi di Minsk, ad esempio) e anzi è convinto che il popolo ucraino, per quanto «intossicato dalla propaganda», stia iniziando a vedere che Zelensky non è un eroe e non sta facendo il bene della propria gente.

DUE ORE di conversazione in cui viene sostanzialmente ribadita la linea di Mosca sull’invasione e si fa appello all’Ucraina (e all’Occidente) di venire a più miti consigli per evitare il peggio. Da notare che a intervistare il presidente bielorusso è una giornalista ucraina, nei cui confronti l’Sbu a gennaio ha aperto un’indagine perché «giustificava l’invasione».

Diana Panchenko ha lavorato per media di proprietà di Viktor Medvedchuk, uomo d’affari già detenuto dal 2021 e, a conflitto in corso, ceduto dall’Ucraina alla Russia con uno scambio di prigionieri (c’è chi crede che sarebbe stato messo a capo di un governo fantoccio a Kiev, in caso di riuscita dell’invasione).

Per alcuni analisti, anzi, il discorso di Lukashenko vorrebbe proprio intercettare l’attenzione del «pubblico dell’oligarca», una fetta di ucraini potenzialmente filorussi che Medvedchuk sta ora cercando di organizzare attorno a un nuovo movimento politico di sua fondazione chiamato «L’Altra Ucraina». A piccola riprova di come la retorica venga calibrata a seconda dell’uditorio, sabato si è chiuso a Minsk il secondo Congresso Antifascista Internazionale organizzato su iniziativa del ministero della difesa (il primo si è tenuto a Mosca lo scorso anno).

Qui – come riportano i media statali – alla presenza di rappresentanti di trenta paesi il presidente bielorusso ha parlato senza mezzi termini del governo ucraino come di un «regime filo-fascista» e ha ribadito l’impegno della Bielorussia a «salvaguardare la memoria della Grande Guerra Patriottica e combattere il neonazismo in vista della costruzione di un mondo multipolare» (concetti invece quasi del tutto assenti nell’intervista).

«Per la retorica putiniana i termini “fascismo” o “nazismo” sono sostanzialmente sinonimi per tutto ciò che viene considerato “anti-russo”», spiega al manifesto Giorgio Comai, analista e ricercatore che si occupa di spazio post-sovietico su Obct.

«La “denazificazione” non aveva nulla a che fare col contrasto a forze di estrema destra in Ucraina o altrove. Al contrario, era un modo per legare sottilmente l’invasione alla memoria della seconda guerra mondiale, laddove scopo dei nazisti era appunto distruggere la Russia. Di conseguenza, secondo Putin, ora è “nazista” chiunque si opponga ai piani di restaurazione di potenza messi in atto dal Cremlino». Comai nota come l’argomentazione della «denazificazione» sia quasi scomparsa dalla retorica russa, mentre più espliciti diventano i richiami alla Grande Guerra Patriottica.

SE IN CAMPO internazionale la Bielorussia fa sfoggio di multipolarismo, molta meno tolleranza è mostrata dentro i confini del paese. La scorsa settimana sì è verificato l’arresto di Volha Britikava e Aliaksandr Kukharonak, attivisti per i diritti del lavoro nella raffineria petrolifera Naftan già brevemente detenuti nel 2020 (secondo l’ong Viasna, in Bielorussia ci sono 1496 detenuti politici).

«Più di 40 membri di organizzazioni sindacali sono in carcere, decine rifugiati all’estero mentre persecuzioni e licenziamenti per motivi politici sono all’ordine del giorno», ci dice il ricercatore Volodymyr Artiukh, che ha studiato sul campo le proteste di tre anni fa.

«Già nel 2001, quando l’allora capo della Federazione dei Sindacati lo sfidò alle elezioni, Lukashenko diede il via a un attacco su più fronti contro i diritti sul lavoro (nomina di persone fedeli ai vertici dei sindacati e introduzioni di contratti a breve termine). La sconfitta del movimento del 2020 ha spianato la strada al passaggio da un cesarismo populista a una dittatura esplicita basata sulla violenza poliziesca. Esauritasi la possibilità di un compromesso interno, anche all’esterno la Bielorussia è diventata sempre più dipendente da Mosca».

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