Il manto sacro torna a casa
Il manto da Copenaghen a Venezia – Foto di Laura Burocco
Internazionale

Il manto sacro torna a casa

Decolonizzazione Il museo nazionale di Copenaghen ha restituito un mantello Tupinambá al Brasile, dopo oltre 400 anni. E a Venezia, per il padiglione del suo paese, la regista, artista e antropologa Glicéria racconta la storia di quei manufatti
Pubblicato 3 mesi faEdizione del 28 luglio 2024

Pochi giorni fa un mantello Tupinambá è tornato in Brasile dall’Europa, dove si trovava dal 1689. Il Museo nazionale di Copenaghen ne aveva annunciato la restituzione lo scorso anno e ora il reperto è parte della collezione del Museu Nacional di Rio de Janeiro, recentemente riaperto dopo l’incendio del 2022. «I patrimoni culturali svolgono un ruolo decisivo nella narrazione che i paesi svolgono riguardo loro stessi. Per questo è importante per noi aiutare a ricostruire il Museo brasiliano dopo le devastazioni del fuoco», ha affermato il direttore dell’istituzione danese, Rane Willerslev.

REALIZZATO con piume rosse di guará, cucite su una base di fibra naturale simile a una rete da pesca, il manto è uno dei meglio conservati del continente europeo. Altri si trovano in Belgio, in Francia e tre in Italia: due a Firenze e uno alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano. Secondo Alberto Rocca, direttore della Pinacoteca, «il manto Tupinambá è diventato parte della collezione nel 1711, attraverso una donazione di Manfredo Settala che lo aveva probabilmente ottenuto dal Granduca di Toscana», il che spiegherebbe perché nella città ce ne sarebbero ben due. «La caratteristica fondamentale della racconta Settal – continua Rocca – è che l’intenzione non è quella di creare una wunderkammer (stanza delle meraviglie) ma un museo etnografico. Non c’è mai un giudizio, ma un’analisi guidata dalla volontà di registrare, di aprire un confronto con diverse popolazioni».
I manti sono indumenti sacri indossati in occasioni formali, come assemblee, sepolture, e rituali antropofagici. João Pacheco, antropologo e curatore del Museu brasiliano spiega che «la restituzione di oggetti ritualistici è molto complessa e comporta necessariamente il coinvolgimento di intellettuali indigeni che conoscono la tradizione, in grado di lavorare con l’arte, il sogno e lo sciamanesimo».

TRA QUESTI, c’è Glicéria Tupinambá, che, insieme a Olinda Tupinambá e Ziel Karapotó, rappresenta quest’anno il Brasile alla 60/a Biennale di Venezia nel padiglione Hãhãwpuá (nome Pataxó usato per descrivere il paese prima dei portoghesi), curato da Arissana Pataxó, Denilson Baniwa e Gustavo Caboco Wapichana. Regista, antropologa, ricercatrice e artista, Célia (come anche è conosciuta) riveste un ruolo centrale non solo nella restituzione ma nel preparare musei, università e istituzioni culturali, a ricevere quel manto. Ascoltandola parlare è evidente come sia considerato al pari di una «persona» con cui stabilire un dialogo e un transito di mondi. «Il mantello – sostiene – porta con sé questo spazio di dialogo e di rottura, dove incontrare tensioni, sfide. È fondamentale, quindi, che la presenza del mantello induca alla riflessione, permettendo di rielaborare altre concezioni. Aiuta a stare con i parenti (come i popoli indigeni si definiscono tra di loro, ndr) per aprire possibili dialoghi. Così come è importante che sia in movimento affinché le persone possano comprendere un’altra logica. Il manto è un corpo provocante… Il suo ritorno in Brasile serve innanzitutto a ridurre una distanza oceanica. Ha quasi quattrocento anni, è un uomo anziano (ride, ndr). Questa forza di volontà che mostra per rientrare tra la sua gente deve essere rispettata, è un antenato che torna, io lo definirei così. Un antenato a lungo messo a tacere. Lo chiamiamo ’oggetto agente’, termine non per tutti di immediata comprensione. Porta spiritualità, è un manufatto promosso dai rituali Tupinambá».

Glicéria Tupinambá nel padiglione del Brasile alla 60/a Biennale d’arte di Venezia

IL PRIMO MANTO che Célia ha realizzato nel 2018 prendeva a modello proprio «colui che è ritornato». «Nel 2018 a Basilea ho visto un mantello molto consumato. Era possibile intuirne la rete, così ho iniziato a cercare di capire. La mia idea era quella di comprendere il cuore e l’osso di quell’elemento. Ho provato a convincere le mie prozie a insegnarmi il loro modo di realizzare manti. Mi risposero però che, siccome lo avevo già sognato, sapevo come farlo e non c’era niente da insegnare. Così, ho seguito il loro consiglio e ho realizzato il primo mantello. Nel 2020, è arrivato il secondo: era per mio fratello, il cacique Babau. Fu allora che il mantello mi disse che era stato realizzato per donne. Quando ciò accadde, vissi una specie di «cosmo-agonia» (ride, ndr). Non avevo quelle che le persone chiamano ’prove’, avevo solo questa autorizzazione da parte degli Encantados (i morti). Nel 2022, il manto nel museo di Copenaghen mi ha confermato che era destinato al mondo femminile. Ma io lo sapevo già. Nel 2023 ero alla Reggia di Versailles, in Francia e nella Sala Reale ho notato una illustrazione che rappresentava i continenti. In quello sudamericano c’era proprio una donna che indossava il mantello Tupinambá».

DURANTE LA COLONIZZAZIONE del Brasile, i mantelli dei Tupinambá divennero oggetto di baratto e saccheggio e la loro tecnica di costruzione si perse. Célia ha re-imparato come realizzarli, diventando la prima donna a costruire un simile manufatto in più di quattrocento anni. «Gli individui con un background cristiano, cattolico, evangelico, hanno una visione del sacro che considero più volatile. Per noi, un antenato è un essere vivente. E ciò spiega anche cosa abbia mosso le persone a prendersi cura di questa cosa fragile per così tanto tempo; lo vedi oggi e appare come nuovo. Sembra che sia stato fatto ieri. Per noi è molto più che sacro; dire che è sacro riduce il potere di ciò che rappresenta».

 

INTERVISTA

Per la sessantesima edizione della Biennale d’arte di Venezia (visitabile fino al 24 novembre), il padiglione per la prima volta ha cambiato il suo nome, facendo riaffiorare la sua identità prima della conquista portoghese. Un’intervista con i suoi curatori.

Potete raccontare qualcosa del processo di creazione del padiglione Hãhãwpuá? Come è avvenuta l’occupazione indigena del padiglione brasiliano a Venezia?

Arissana Pataxó: Sono stata contattata per presentare una proposta che doveva essere valutata da un gruppo di persone legate a Itamaraty (ministero degli Esteri), la Fondazione Bienal de São Paulo e il ministero della Cultura. Ero con Denilson (Batiwa) e Gustavo (Cabloco)e così abbiamo deciso di farlo insieme. Abbiamo coinvolto Glicéria perché doveva sapere di essere inclusa nella proposta e conoscevamo già il suo lavoro. Presentare una donna è stato uno dei nostri temi, fin dall’inizio della proposta. E poi abbiamo iniziato a lavorare con lei. Glicéria ci diceva cosa stesse facendo e cosa intendesse rafforzare. A dicembre, dopo mesi, siamo stati informati che il nostro progetto era stato scelto e abbiamo iniziato a incontrarci per costruire un progetto più concreto. Non abbiamo cambiato nulla, abbiamo solo affinato la proposta riguardo la discussione territoriale, degli stranieri nel loro luogo, a cominciare dai Tupinambá e degli altri ‘invitati’ per fare spazio sia ad artisti che non. Il nome era stato già definito prima della selezione. Siamo stati molto precisi. Fin dall’inizio abbiamo pensato alla Ka’a Pûera come un uccello e alla foresta che è stata distrutta o dall’azione umana. E abbiamo ripreso la frase Pássaros que Andam da un lavoro video che Glicéria aveva  realizzato proprio con quel titolo.

Siete arrivati alla decisione di proporre la trasformazione del nome del padiglione – da Brasile a Hãhãwpuá  – ricordando forse anche quello Sámi due anni fa?

Arissana Pataxó: Hãhãwpuá è in Patxôhã (lingua Pataxó). Non lo abbiamo trovato in Tupinambá, avevamo pochissimo tempo.

Denilson Baniwa: Avevamo due settimane per pensare all’artista, scrivere il concetto, fare la proposta, presentarla e difenderla…

Gustavo Cabloco: La decisione è stata presa pensando alla storia dell’arte. Il nome Hãhãwpuá è un invito affinché la storia dell’arte brasiliana si ricordi che più di 300 popoli indigeni riconoscono il territorio brasiliano con quel nome. Abbiamo scelto il Nordest perché è la costa e vogliamo affrontare la narrazione sull’invasione e la scoperta. Perché ciò che viene messo in scena è sempre qualcosa che rimanda a storie simili a quella di Hans Staden (esploratore tedesco) che porta con sé la visione europea dell’invasione e della costa di cui fortemente si dibatte oggi nella rete degli artisti del Nordest. E poi Pataxó, per la presenza di Arissana.

Qualcosa sugli altri artisti presenti nel padiglione, Olinda Tupinambá e Ziel Carapotó?

GC: A partire da Glicéria, abbiamo visto un insieme di lavori in cui l’argomentazione di un’opera ne rafforza un’altra. L’installazione di Ziel si chiama Cardume e porta con sé una provocazione, un riconoscimento delle relazioni controverse, uno sciame di maracas e di proiettili delle guerre coloniali. Il lavoro di Olinda, Equilibrio, tratta direttamente delle denunce del territorio, dei taglialegna, degli incendi, ma guarda anche alla fragilità della foresta, agli esseri invisibili che soffrono questi movimenti di esplorazione. (laura burocco)

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