Il Libano nell’immaginario, un gesto di resistenza
Cinema Dai film di Jocelyn Saab alle nuove generazioni, la «prima persona» di una memoria collettiva. Beirut è un laboratorio in cui prendono corpo i conflitti del nostro tempo
Cinema Dai film di Jocelyn Saab alle nuove generazioni, la «prima persona» di una memoria collettiva. Beirut è un laboratorio in cui prendono corpo i conflitti del nostro tempo
«I palestinesi volevano ritrovare la propria terra e vivere in modo indipendente. Se si mostra una persona che viene bombardata ogni giorno, che viene esiliata ogni giorno si capisce bene quali possano essere le sue aspirazioni … Ho girato il mio ultimo film da sola, senza operatore, sotto le bombe dell’assedio di Beirut … Non sapevo bene cosa ne avrei fatto ma volevo raccontare la sfida degli abitanti contro questo accerchiamento. Ho mostrato solo la solidarietà, la strana euforia che cresce mentre tutti si occupano delle cose essenziali, acqua, pane, elettricità, e le persone si guardano negli occhi. La volontà di sopravvivere, questa sfida alla violenza che ci viene imposta, il rifiuto di andarsene: tutto ciò crea sicuramente qualcosa di molto forte».
Le parole sono di Jocelyn Saab – in un’intervista del 1983, a cura di Sylvie Dallet. Giornalista, regista, scrittrice, fotografa, femminista, programmatrice – dal suo infaticabile lavoro è nata quella che fu l’esperienza della Cineteca di Beirut – questa raffinata intellettuale libanese, che rimase sempre dentro alla sua città, anche quando ne era fisicamente lontana, ha dato voce in prima persona alle battaglie che hanno attraversato il suo Paese sovvertendo molti canoni dell’immaginario in chiave orientalista – e antieurocentrica.
L’anno prima, nel 1982, quando gli israeliani devastavano la città – fino al massacro nei campi palestinesi di Sabra e Chatila – Saab aveva realizzato Beyrouth ma ville. Nella sequenza iniziale la vediamo di spalle, fuma una sigaretta finché la macchina da presa rivela le macerie di un palazzo: «Ecco la mia casa, o meglio ciò che ne rimane» dice la voce di Saab. E quel trauma personale della casa di famiglia da oltre un secolo distrutta in un istante si fa il punto di partenza per narrare la guerra, per costruire attraverso le immagini una storia collettiva.
COLPISCE vederle oggi, a distanza di quarant’anni, con l’esercito israeliano che ha ripreso a bombardare massicciamente il Libano uccidendo centinaia di cittadini, quasi che quella libanese sia una storia di conflitti che si rispecchia in un immaginario. Saab è stata una pioniera, come Maroun Bagdadi – che in quello stesso 1982 aveva realizzato Les petites guerres presentato poi a Cannes prima di esiliarsi a Parigi per sfuggire alla brutalità dell’invasione israeliana.
Le piccole guerre che è un potente melodramma famigliare inizia all’aeroporto e si muove fra Beirut e la valle della Beqaa sperimentando una forma molto inventiva – la fotografia è di Ed Lachman – a fronte di una questione sostanziale: perché si resta? Un po’ il controcampo di ciò che affermava un precedente lavoro di Bagdadi, Whispers (1980) nel quale intervistati dalla poetessa Nadia Tueni, prendono la parola dei cittadini libanesi condividendo il proprio quotidiano di guerra. Questa oscillazione si ripete nelle generazioni a seguire, e nei diversi passaggi della storia fino all’esplosione del porto di Beirut, una nuova ferita che ha spinto molti giovani a lasciare il Paese.
Parlando della morte di Baghdadi (nel 1993, cadde da un’ascensore) lo scrittore libanese Walid Sadek ricorda che era stato celebrato come «il martire di una memoria estesa uccisa da una corsa artificiale verso una ricostruzione amnesica». È dunque questa resistenza che cercano le immagini? La «Beyrouth fantôme» – il titolo di un film di Ghassan Salhab, regista libanese nato a Dakar che fonda la sua opera sulla creazione di una possibile geografia intima del trauma declinata nei vissuti del presente – è un prisma, un laboratorio della contemporaneità e delle sue fratture che assume anche nel confronto col conflitto più prospettive, persino impreviste se pensiamo alle storie e alle meravigliose Conversations de salon di una regista come Danielle Arbid.
Ma questa è la sua ricchezza. E poi lo è sempre stato un’anomalia quel luogo, che infatti negli anni sessanta delle utopie nasseriane esercitò un’attrattiva sui grandi maestri del cinema arabo come Youssef Chahine – lì girò Il venditore di anelli (1965).
Le immagini, le narrazioni sono i bordi, i frammenti in cui cercare il senso mai banale delle cose da opporre a appunto alle amnesie. Nella sequenza iniziale del suo più recente A Fidai Film (2024) il regista palestinese Kamal Aljafari mostra col repertorio quando gli israeliani per colpire l’allora Olp nella capitale libanese -distruggono gli archivi palestinesi. Significa cancellare la memoria di un popolo intero – sussurra la voce fuori campo di uno degli archivisti che l’esplosione ha reso cieco.
JOANA HADJITHOMAS e Khalil Joreige, entrambi libanesi, illuminano con precisione nel loro Memory Box queste questioni – l’allez-retour fra oblio e consapevolezza. E anche come l’oralità che diventa immagine può restituire ciò che è stato occultato, come il campo di detenzione di Khiam (Khiam, 2000-2007) nel sud del Libano occupato da Israele, smantellato e trasformato in un museo nel 2000 e distrutto nel 2006 sempre dagli attacchi israeliani. Sono le parole di sei prigionieri che ne restituiscono davanti all’obbiettivo dei registi gli accadimenti, le esistenze, il tempo in cella, le torture interrogando il ruolo delle immagini nell’incontro con la memoria e con la storia. Qualcosa che adesso appare ancora più indispensabile.
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