«Quando piove a Damasco, a Beirut aprono l’ombrello» diceva Hafiz al-Assad per descrivere la vicinanza, non solo geografica, tra Siria e Libano. Del resto quella dei due paesi è una storia che viaggia su binari paralleli che troppo spesso si sono incontrati.

La visita a Damasco di martedì dell’ex presidente libanese Michel Aoun, dopo 14 anni, in un momento decisivo per l’elezione del nuovo presidente, che potrebbe avvenire già la settimana prossima – la poltrona di Aoun è vuota dal 31 ottobre scorso e i partiti non riescono a mettersi d’accordo per il suo successore – è molto di più che un incontro formale.

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In primo luogo c’è la questione politicamente spendibilissima del rientro dei rifugiati. Il Libano, dove le agenzie Onu hanno smesso di contarli dal 2015, si stima abbia circa due milioni di rifugiati (i libanesi sono circa quattro milioni e la superficie del paese è di 10 km², quanto l’Abruzzo), ma si tratta di una stima molto approssimativa, tra vecchi rifugiati e nuovi nati non registrati. Un terzo della popolazione in Libano sarebbe siriana.

DALLA CRISI economica che ha devastato il paese a cominciare dal 2019, la questione siriana, gestita malissimo sia dal governo che dalle organizzazioni internazionali, pesa ancora di più, in modo particolare sul piano della propaganda.

«I cambiamenti in Medio Oriente sono indici positivi nell’interesse di tutti i paesi arabi. La ripresa della Siria si ripercuoterà positivamente sul Libano», ha detto Aoun, che ha poi tirato una stoccata all’Ue informando il presidente siriano Bashar al-Assad della «posizione pericolosa dell’Europa che rifiuta di rimpatriare i rifugiati, che tenta di integrarli nella società libanese e che fa pressione con tutti i mezzi per impedirne il loro ritorno (in patria) con la scusa di proteggerli». Né Aoun, tanto meno Assad hanno fatto menzione delle condizioni a cui i rifugiati rientrerebbero, di garanzie o di altri temi simili.

C’è poi la questione internazionale. Oggi che le nubi sulla Siria sembrano scomparire, che Assad viene calorosamente riammesso nella Lega araba, che pare si sia steso un tappeto sugli oltre 10 anni di guerra civile ancora in corso, che la regione su spinta dei sauditi cerca una nuova stabilità – il riavvicinamento Riyadh/Teheran –, il Libano non poteva certo chiamarsi fuori.

Queste presidenziali segneranno, per il momento di instabilità economica che lo stato sta vivendo, un riposizionamento politico del paese sullo scacchiere regionale e internazionale. Nello specifico, al candidato filo-siriano sostenuto dal duo sciita Hezbollah-Amal, Sleiman Frangieh del gruppo Marada, domenica i principali gruppi cristiani hanno opposto quello di Jihad Azour, direttore del Dipartimento per il Medio Oriente e Asia centrale del Fondo monetario internazionale.

AMAL, il gruppo del cristiano Aoun gestito ormai da suo genero Bassil e alleato politico di Hezbollah, non voterà però in blocco per il proprio candidato: si pensa a un’astensione nella migliore delle ipotesi. Da cui la visita a Damasco perché Assad convinca Hezbollah a puntare su un altro candidato. Ago della bilancia, come sempre, il druso Jumblatt, capo dei socialisti, che aveva sì fatto in precedenza il nome di Azour, ma che si riserva il sostegno formale.

In tutto questo intreccio, il paese è in una nuova bolla, una nuova sospensione, con il prezzo della lira stabile da un paio di mesi a 93/94mila per un dollaro, moneta ufficiale in Libano, dopo un periodo di montagne russe, con una dollarizzazione totale del mercato, un forte impoverimento della classe media e una povertà multidimensionale in aumento. Si aspetta che tutto cambi, perché nulla cambi.