La 18/ a Mostra internazionale di architettura (che inaugurerà al pubblico sabato 20 maggio per proseguire fino al 26 novembre, ai Giardini, all’Arsenale e a Forte Marghera) sarà The Laboratory of the Future. È così che Lesley Lokko – scrittrice, architetta nata in Scozia, cresciuta in Africa, studi negli Stati Uniti, in Inghilterra e insegnamenti in vari paesi – immagina la sua rassegna veneziana, chiamando i partecipanti pratictioner e non architetti, designer, urbanisti perché sarebbe riduttivo. E come afferma il presidente Roberto Ciccuto, «un laboratorio del futuro non può prescindere da un punto di partenza preciso, da una o più ipotesi di verifica». E Lokko ricomincia dall’Africa, per raccontarne criticità storiche, economiche, climatiche e politiche, dato che in quel continente è già accaduto molto di ciò che sta succedendo oggi in altri luoghi del mondo.

LA BIENNALE ARCHITETTURA aprirà all’insegna di due parole: decolonizzazione e decarbonizzazione. La curatrice, infatti, si è interrogata su cosa significhi oggi essere un agente del cambiamento. «Negli ultimi nove mesi, in centinaia di conversazioni, messaggi di testo, videochiamate e riunioni – ha spiegato Lokko – è emersa più volte la domanda se esposizioni di questa portata, sia in termini di emissioni di carbonio sia di costi, possano essere giustificate. A maggio dell’anno scorso (in occasione dell’annuncio del titolo) ho parlato più volte della Mostra come di ’una storia’, una narrazione che si evolve nello spazio. Oggi ho una visione diversa. Una mostra di architettura è allo stesso tempo un momento e un processo. Prende in prestito struttura e formato dalle rassegne d’arte, ma se ne distingue per aspetti critici che spesso passano inosservati. Oltre al desiderio di narrare una storia, anche le questioni legate alla produzione, alle risorse e alla rappresentazione sono centrali».
Per la prima volta, poi, i riflettori saranno puntati sull’Africa e la diaspora. «Nell’architettura in particolare, la voce dominante è stata storicamente una voce singolare ed esclusiva, la cui portata e il cui potere hanno ignorato vaste fasce di umanità – dal punto di vista finanziario, creativo e concettuale – come se si ascoltasse e si parlasse in un’unica lingua. La ’storia’ dell’architettura è quindi non sbagliata ma incompleta. Per il cambiamento bisogna procedere per piccoli passi e grandi balzi».
La mostra vede più di 89 partecipanti (oltre la metà provenienti dall’Africa e diaspora), l’età media è 43 anni e il 70% degli studi invitati sono gestiti da un singolo o sono imprese di poche persone. Nel padiglione centrale ci saranno alcuni dei più grandi professionisti africani che stanno ridefinendo la pratica, mentre all’Arsenale Dangerous Liaisons, accoglierà una geografia fluida di discipline e nuove forme di collaborazione. Non mancheranno progetti speciali (cibo, clima, gender, mnemonic), la Biennale College inserita a tutto campo, ospiti come il regista Amos Gitai mentre la palette grafica dei colori riprenderà quella «dell’Africa da cui provengo», dice Lokko. Infine, nella sezione «Carnival», si svolgeranno incontri dove le idee potranno essere «rovesciate» da filmmaker, scrittori, artisti, organizzatori di comunità, attivisti che condivideranno il palco con architetti e studenti. Il padiglione delle arti applicate (in collaborazione fra Biennale e Victoria & Albert Museum) risponderà alla mostra con un’esposizione sul Modernismo tropicale.