Il kamikaze del rap angolano
Storie Dopo un mese di sciopero della fame si aggravano le condizioni di Luaty Beirão alias Ikonoklasta, rapper e «attivista civico» detenuto dallo scorso giugno in un carcere di Luanda - in barba alla legge - con l’accusa di voler pianificare una rivolta contro l’eterno presidente dos Santos
Storie Dopo un mese di sciopero della fame si aggravano le condizioni di Luaty Beirão alias Ikonoklasta, rapper e «attivista civico» detenuto dallo scorso giugno in un carcere di Luanda - in barba alla legge - con l’accusa di voler pianificare una rivolta contro l’eterno presidente dos Santos
Il 20 settembre scorso il presidente angolano José Eduardo Dos Santos ha festeggiato i suoi 36 anni di potere, iniziati all’indomani della morte di Agostino Neto nel 1979. Quest’anno, in quello stesso giorno, scadevano, bellamente ignorati, i termini della carcerazione preventiva di Luaty Beirão, rapper e attivista molto noto in Angola, arrestato tre mesi prima con l’accusa di preparare «una ribellione e un attentato al Presidente della Repubblica».
Una pura e semplice coincidenza, che racconta però da due diverse angolazioni lo stato dell’arte nel paese africano dagli indicatori economici più esuberanti, teatro di una crescita impetuosa che solo i ribassi nel comparto petrolifero stanno mettendo in discussione. E che in ogni caso nulla ha cambiato nella vita di quel 40% della popolazione che vive sotto la soglia di povertà. Percentuale che sale inesorabilmente se parliamo di “soglia” di libertà.
Un tempo c’era il famigerato «articolo 26», una legge usata spesso e volentieri per incarcerare giornalisti indipendenti e attivisti anti-governativi. La nuova legge, varata nel 2010, manteneva l’arresto in caso di offese alla Repubblica e al suo presidente. Di più: l’articolo in cui si parla di insulti mediante la diffusione di «parole, immagini, scritti o suoni» sembra fatta apposta per i rapper e i graffitisti.
Luaty Beirão, meglio conosciuto con gli eteronimi Brigadeiro Mata Frakuzx e Ikonoklasta, un giorno dopo quel 20 settembre, quando è stato chiaro che in barba alla Costituzione non l’avrebbero rilasciato, ha iniziato uno sciopero della fame che dura ancora oggi. Pochi giorni fa lo hanno trasferito dal penitenziario-ospedale di São Paulo di Luanda, dove era stato ricoverato in seguito all’aggravarsi delle sue condizioni, a una clinica privata. «Solo per precauzione», ha spiegato il responsabile per la salute del sistema penitenziario angolano Manuel Freire. «È in gravi condizioni» dice la moglie Monica Almeida, smentendo però che la lettera con cui il rapper nei giorni scorsi chiedeva tra l’altro che fosse rispettato il suo diritto a non essere sottoposto ad alimentazione forzata, anche nel caso di una perdita di conoscenza, sia «sintomatica di alcunché: in simili circostanze – dice la donna – è quasi una formalità».
Nella lettera Beirão, 33 anni, si definisce «attivista civico in stato di detenzione» e si rivolge al presidente angolano chiamandolo «ingegnere» (lui stesso è laureato in ingegneria). Dos Santos, scrive Beirão, per la sua abitudine a «immischiarsi in questioni che in una democrazia sarebbero esclusivo appannaggio della magistratura» è da ritenersi «direttamente responsabile» dell’esito di questa sua protesta estrema.
È la brutta piega assunta da uno scontro che va avanti da anni con un regime sempre più liberticida, cleptocratico, avviluppato dagli enormi interessi che ruotano intorno all’estrazione del petrolio (l’Angola è il secondo produttore, in Africa, dopo la Nigeria) e dei diamanti. Sull’argomento parlano chiaro anche i ripetuti arresti e i processi subiti dal giornalista Rafael Marques, che nel suo libro Diamantes de Sangue – Corrupção e Tortura em Angola ha osato accusare frontalmente sette generali molto vicini a Dos Santos.
I testi bollenti di Luaty Beirão alias Ikonoklasta sono evidentemente quelli delle sue canzoni: Revolução, Nós e os Outros, Hino de um Kunanga. O quando urla «sono un kamikaze angolano e questa è la mia missione». Al regime di dos Santos rimprovera di aver abbandonato gli strati più deboli della società angolana, privandoli dei diritti elementari (libertà di parola, ma anche accesso ad acqua, luce, sanità, lavoro). Quando la denuncia sociale viene servita con un sarcasmo amaro ma esilarante, Ikonoklasta diventa davvero irresistibile. In altre parole, pericoloso.
Indicativo in tal senso il videoclip che accompagna Cuka, un brano in stile «kuduro intelligente» del collettivo luso-angolano Batida, che al rapper di Luanda ha dato una prima visibilità internazionale. Beirão vi appare in mutande, con una vecchia giacca militare. Ed è visibilmente sbronzo. Il testo in effetti mette in guardia i giovani dal consumare troppa birra (marca «Cuca», acronimo di Companhia União de Cervejas de Angola) e offre una lettura squisitamente politica dell’alcolismo che flagella il paese. Il momento clou è quando alle spalle di Ikonoklasta appaiono tante faccine del presidente dos Santos, progressivamente barrate da una croce, e lui si chiede se dopo tutto questo deve proprio tornare a votare dos Santos (si avvicinava all’epoca la tornata elettorale del 2012). Mentre se lo chiede, malfermo sulle gambe, si fruga nel naso con un dito e poi se lo infila in bocca.
A dos Santos non deve essere piaciuto. Ma ciò che rende Ikonoklasta particolarmente inviso al presidente potrebbe essere il fatto di avere un padre come João Beirão, lo scomparso fondatore e primo presidente della Fondazione Eduardo dos Santos, che ha ricoperto diverse funzioni pubbliche ed è sempre stato molto vicino al capo dello stato. Tale padre, non tale figlio.
Nel 2011 Luaty Beirão è stato ferito alla testa durante le proteste con cui il movimento studentesco angolano sperava di innescare una rivolta come quella che dall’altra parte dell’Africa aveva appena rovesciato Ben Ali e Mubarak. In seguito il rapper è stato più volte aggredito da misteriosi picchiatori e sua madre ha ricevuto minacce di morte. Il culmine nel 2012, quando Luaty «Ikonoklasta» è stato fermato all’aeroporto di Lisbona con quasi due chili di coca nel bagaglio. Lui non si è perso d’animo, ha accusato i servizi angolani e un giudice portoghese con una decisione senza precedenti ha finito per dargli ragione.
Qui le accuse sono ancora più pesanti, parliamo di «insurrezione». Il 20 giugno Luaty è stato arrestato con altre 16 persone. Ma lui non sembra spaventato dalle accuse, è solo indignato dal fatto di non poter attendere il processo da uomo libero, come pretenderebbe la legge. In fondo non sembra una posizione così eversiva. È un suo diritto. E a quanto pare è disposto a morire perché venga rispettato.
ABBONAMENTI
Passa dalla parte del torto.
Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento