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Il grande fiume d’Italia ha un bel Po di guai

Reportage Un viaggio dal cuneese alle sorgenti. Dove si sentono le conseguenze dell’effetto serra, dell’inquinamento e della scarsa manutenzione

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 5 luglio 2018
Mauro RavarinoFOCE DEL PO

Abbiamo occupato con il cemento il suo alveo, le sue curve non ci piacevano e le abbiamo raddrizzate, l’abbiamo sfruttato a più non posso, inquinato e saccheggiato, e, soprattutto, abbiamo rotto ogni rapporto con lui, frantumando quella atavica relazione che aveva con i nostri nonni. Quando ha fatto la voce grossa ci siamo spaventati, abbiamo gridato all’emergenza, sbraitato contro cumuli di ghiaia (non sapendo che il letto era abbassato da continue escavazioni). Culla delle civiltà, il fiume è sempre stato la risorsa idrica più utilizzata dall’uomo ed è oggi un indicatore privilegiato dello stato di salute di un territorio e dei cambiamenti climatici a livello globale. Fiume italiano per eccellenza è il Po con i suoi 652 chilometri, un bacino idrografico di 71 mila chilometri quadrati e 16 milioni di persone che vivono nei dintorni.

RISALENDOLO A RITROSO, dalla pianura alla montagna, il Po cambia forma e paesaggio: diventa un torrente e, sopra Crissolo (Cuneo), l’ultimo comune della Valle a cui dà il nome, pare poco più di un ruscello. Qui, tra le rocce ripide del Monviso, lo scorso anno – stagione record per la siccità – le sue sorgenti, 2.022 metri d’altezza, sono andate in secca. A Pian del Re, proprio dove compare la scritta «Qui nasce il Po». Un fenomeno raro e grave. Il grande fiume sorgeva venti o trenta metri più in basso, formato da rivoli d’acqua. La fonte restava, però, muta e asciutta.

Negli ultimi mesi la situazione è migliorata: le nevicate e le piogge sono state abbondanti. È il trend che preoccupa: la tendenza evidenzia un aumento delle temperature medie e una diminuzione media delle precipitazioni. «Quello a cui stiamo assistendo è una mediterraneizzazione dei fiumi alpini, il regime un tempo perenne diventa ora intermittente, quasi come nella fiumara calabra. E si assiste a un’estremizzazione delle portate: ci sono momenti in cui non c’è acqua a sufficienza, altri in cui ce n’è troppa. Nei giorni di pioggia cade più acqua della media e ruscella velocemente. Si tratta di una situazione che ha portato a una allarmante riduzione della biodiversità, in quanto gli organismi che vivono nei fiumi alpini non hanno avuto il tempo evolutivo per adattarsi. Un crollo, per esempio, delle popolazioni ittiche». Lo spiega Stefano Fenoglio, docente di ecologia fluviale all’Università del Piemonte Orientale, profondo conoscitore del Po, soprattutto del tratto montano e pedemontano, che vive, scruta e studia con passione. È uno degli animatori del Prin «No acqua» (Progetto di ricerca di interesse nazionale) per lo studio delle conseguenze delle asciutte nei corsi d’acqua, coordinato dalle università di Parma, Ferrara e Piemonte Orientale.

I NOSTRI FIUMI SONO MINACCIATI DA FATTORI GLOBALI, come il surriscaldamento e lo scioglimento dei ghiacciai, e da alterazioni locali morfologiche e idrologiche: dalla canalizzazione all’inquinamento – che non è più quello degli anni Settanta e Ottanta ma resta una questione aperta – fino all’abbandono di una manutenzione quotidiana. Si è perso il rapporto uomo-fiume: «Era una relazione caratterizzata dall’uso capillare e razionale della risorsa acqua e da una conoscenza profonda e programmata del territorio, che aveva consentito per secoli un modesto impatto ambientale. Elemento fondamentale della relazione uomo-fiume nelle comunità alpina era il rispetto. «Nella Valle Po, dove la capacità erosiva non è poca, i nostri vecchi – racconta Fenoglio, che partecipa anche al progetto Italian mountain lab, promosso dall’Università della Montagna di Milano – costruivano i borghi sugli spartiacque, sui bricchi, non nell’alveo come si iniziò a fare nel Novecento, rettificando e snaturando il percorso del fiume, intrappolandolo. La gestione dell’acqua era nella comunità uno degli elementi più importanti del tessuto sociale, la manutenzione veniva fatta insieme. Cementificazione e spopolamento hanno cambiato il paradigma».

DALLE ALPI COZIE, il Po scende a Torino, la città più grande che attraversa, con la collina da un lato e il parco del Valentino e i Murazzi dall’altro, poi costeggia le risaie del Vercellese, dopo che il canale Canale Cavour ne ha ridotto la portata. Ma solo superato Isola di Sant’Antonio (Alessandria) si trasforma in un grande fiume: il 50% della sua portata deriva dagli affluenti che arrivano dai grandi laghi lombardi: prima il Ticino, poi l’Adda, poi l’Olio e il Mincio. La siccità prolungata tra l’autunno del 2016 e quello del 2017 è stata pesante: il 22 luglio a Pontelagoscuro (Ferrara) è stata registrata una portata di 417 metri cubi al secondo, inferiore ai 450 m³/s individuati come soglia «accettabile» per il contenimento della risalita del cuneo salino.

La scorsa estate si è classificata come la quarta più siccitosa di sempre con la caduta del 41% in meno di precipitazioni e una temperatura media superiore di 2,48 gradi alla media, inferiore solo a quella registrata nel 2003. Gli effetti della siccità si sono fatti sentire pesantemente sull’agricoltura italiana con circa due miliardi di perdite stimate dalla Coldiretti per le coltivazioni e gli allevamenti nel 2017.

IL BACINO DEL PO PRODUCE IL 40% DEL PIL ITALIANO, in una porzione pari a un quarto del territorio nazionale. «Per capire il presente bisogna fare il punto su cosa è successo negli ultimi cinquant’anni. Si è verificato – spiega Pierluigi Viaroli, docente di ecologia all’Università di Parma – un peggioramento della situazione ambientale: attività industriali, sviluppo agricolo imponente, industrializzazione degli allevamenti (crescita esponenziale del numero di capi suini), detersivi (fino agli anni Cinquanta c’erano le lavandaie); si tratta di fattori che insieme hanno compromesso la qualità delle acque. A metà degli anni Settanta, il picco di presenza di fosforo, nitrati, fosfati, metalli pesanti, pesticidi. La legge Merli sulla tutela delle acque (1976), con l’introduzione di depuratori, e la stretta sui detersivi hanno portato piano piano a un miglioramento e a una riduzione del fosforo e dei fosfati. Alcuni problemi sono stati risolti, ma ne sono sopraggiunti nuovi con sostanze chimiche emergenti. E il Ddt è tornato in circolo con lo scioglimento dei ghiacciai».

IL FIUME CAMBIA, il problema dell’acqua è statisticamente rilevante: negli ultimi anni si sono ripetute forti siccità (2003-2007-2017). «Il Po – sottolinea Viaroli – è come un paziente con problemi cardiocircolatori, se intervengo sull’aorta magari risolvo il problema ma posso creare un danno. Meglio, allora, agire sui capillari periferici e avere meno rischi e più benefici. Un approccio di tipo adattivo. Incominciamo a fare piccoli interventi con costi limitati, ricostruendo canalizzazioni in termini più ambientali». Come, per esempio, il progetto Life Rinasce del Consorzio bonifica Emilia Romagna, per la riqualificazione naturalistica per la sostenibilità integrata idraulico-ambientale dei Canali Emiliani.

BASTANO POCHI ALTRI ANNI come lo scorso e la situazione diventerebbe drammatica. Che fare? «Gestire l’acqua – commenta Stefano Fenoglio – in modo migliore per non disperderla; pensare a sistemi di irrigazione più parsimoniosi e a coltivazioni che richiedano meno acqua. Lasciare più acqua possibile nei fiumi per garantire il funzionamento degli ecosistemi. Migliorare la rete di distribuzione, la resa degli impianti di irrigazione, ammodernare impianti idroelettrici, non costruire nuove centrali. Le regole su distanze e rispetto aree ci sono ma non vengono fatte rispettare adeguatamente. Infine, ritengo sia fondamentale recuperare un rapporto uomo-fiume basato su rispetto, conoscenza, pratica quotidiana, sostenibilità, conservazione e promozione del territorio». Tutti i corsi del pianeta messi assieme formano lo 0,0002% dell’acqua totale, gli oceani il 96,5%. Si tratta di una risorsa inestimabile a cui prestare cura e attenzione, ne va della vita di tutti gli esseri viventi.

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