Il golpe «diverso» contro un regime putrescente
Putsch africani Il colpo di stato in Gabon
Putsch africani Il colpo di stato in Gabon
Una rivoluzione di palazzo capitanata dai berretti verdi della guardia del palazzo stesso, che mettono fine all’ennesima farsa elettorale e decretano «la dissoluzione di tutte le istituzioni», rovesciando 55 anni di dinastia-regime della famiglia Bongo, fedelissimo ancoraggio delle strategie della Françafrique.
E tuttavia, pur allungando la lista dei putch militari che continuano a susseguirsi nell’Africa francofona, il golpe in Gabon non può essere letto come semplice conseguenza del declino dell’influenza di Parigi in Africa. A ben guardare, le somiglianze con gli altri golpe sono prevalentemente di superficie. Certo, come in Niger, anche a Libreville il colpo di stato passa per il tradimento del generale del corpo d’elite pretoriano, la guardia repubblicana: nominato Presidente del Comitato per la transizione e la restaurazione delle istituzioni, Brice Oligui Nguema è in realtà un lontano cugino dei Bongo, un alto ufficiale che i Bongo, grazie ai propri partner internazionali, hanno dotato dei migliori uomini ed equipaggiamenti militari. A sua volta figlio di un generale, Nguema si è formato nell’accademia militare marocchina, in omaggio a rapporti molto stretti fra i Bongo e la monarchia di Rabat, ed è certamente più noto per i propri investimenti cash in immobili di pregio nel Maryland che per la propria inclinazione al pronunciamento.
Diversamente da Mali, Burkina Faso o Niger, in Gabon non è in corso un’insorgenza jihadista che richiama la presenza militare occidentale. Diversamente dal presidente-ostaggio della giunta di Niamey, Mohamed Bazoum, il deposto Ali Bongo non vanta un passato da leader studentesco o da sindacalista. Non si è distinto per aver cercato, pur con innumerevoli limiti, di promuovere un’agenda di riforme e introducendo elementi di discontinuità dal suo predecessore.
Mentre per le strade di Libreville esplodeva la gioia dei manifestanti avvolti nella bandiera gabonese (non si sono viste bandiere russe), Ali Bongo Ondimba – figura già fiaccata da un ictus che lo ha colpito anni fa – ha lanciato un flebile video-appello chiedendo alla comunità internazionale, invitando tutti a «fare rumore». I lealisti stentano a farsi sentire. La sua caduta segna la fine senza appello di un regime putrescente, che fino all’ultimo ha chiuso tutti i canali informativi, rifiutando anche gli osservatori internazionali. Mentre i golpisti nigerini, intrappolati nel gioco geopolitico saheliano, faticano a riempire gli stadi e vengono criticati da Reporters sans frontières per le pesanti limitazioni alla libertà di stampa, i militari golpisti del Gabon hanno per prima cosa riallacciato internet, lasciando circolare le immagini di valige piene di banconote confiscate nei palazzi del potere.
Il Gabon è un paese centrafricano la cui popolazione non arriva a metà di quella di Nairobi. La sua superficie è ampiamente coperta di foresta equatoriale, il che ha consentito – tramite un’accorta strategia imbastita dal ministro «delle foreste, degli oceani, dell’ambiente e del cambiamento climatico, Lee White, di accreditarsi come modello di governance sostenibile delle risorse. Bianco, cittadino britannico con tanto di onoreficenze del Commonwealth, White mesi fa è stato additato da organizzazioni ambientaliste come architetto di una grande operazione di green washing attraverso il sistema dei carbon credits, con coinvolgimento di Jeff Bezos e compagnie petrolifere.
Grande esportatore di petrolio, uranio e manganese, il Gabon è senza dubbio il perno della politica francese verso l’Africa, quantomeno dagli anni sessanta, con l’ascesa al potere di Omar Bongo. Se è vero che le sorti dei Bongo sono inestricabilmente intrecciate con quelle delle politiche francesi, è anche vero che la Francia è impegnata a gestire una fase di disimpegno, nella quale la dinastia dei Bongo diventa sempre meno una soluzione e sempre più un problema. Impensabile, davanti alla repressione e alle ripetute frodi elettorali, pensare a un posizionamento diplomatico che punti a reinsediare il presidente “legittimo” con la forza. I non detti, nelle dichiarazioni con cui la diplomazia statunitense ha commentato il golpe in Gabon, sono indicativi. Fra i primi a reagire esprimendo preoccupazione, accanto alla Francia e all’Unione Africana, la Cina di Xi, che è solito chiamare Ali Bongo «un vecchio amico», e che sta rafforzando la sua cooperazione con Libreville anche sul versante militare. Mentre il Marocco ha reagito tardivamente e con toni morbidi, traspare l’inquietudine del Camerun (dove il presidente Byia ha immediatamente disposto un rimpasto dei vertici militari) e il Congo Brazzaville, paese importante per le nostre importazioni di idrocarburi, “etnicamente vicino” nonché imparentato con il Gabon attraverso matrimoni dinastico-presidenziali. Anche qui si diffonde l’attesa e l’allerta.
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