Che cosa diremmo se non ci fosse più il Giro d’Italia? Se ci siamo assuefatti all’idea della Nazionale di calcio esclusa dai mondiali per otto anni di seguito, potremmo vivere anche senza il Giro. Il calcio, però, ha subito l’interruzione dei campionati a causa del Covid, il Giro nessuna dal 1909 (ad eccezione delle due Guerre mondiali), anno della prima edizione vinta dal muratore varesino Luigi Ganna «su macchina Atala e pneumatici Dunlop» riferiscono le cronache di allora, obbligate all’accoppiata industria-ciclismo.

Dice Abdul, un giovane muratore egiziano, che il suo capo gli ha trasmesso la passione per il calcio e il tifo per il Napoli, però, con il suo italiano stentato sottolinea che i veri atleti, quelli che sudano e si sacrificano fino in fondo sono i ciclisti. Il Giro d’Italia è sudore e passione, è lo stile del ciclista che si apprezza da come tiene la posizione sul sellino, è il panorama all’interno del quale si svolge la corsa, una simbiosi che nessun altro sport presenta come il ciclismo. Il Giro è il fruscio degli pneumatici che in un attimo segnano i paesi attraversati, è il racconto epico della corsa, dell’impresa, della sofferenza del volto che si contrae fino allo spasimo, come quella di Pantani: « Attacco prima di tutti gli altri per accorciare l’agonia» diceva il campione romagnolo.

Tanti scrittori hanno raccontato il Giro d’Italia. Negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, i quotidiani italiani erano soliti arruolare le migliori penne per raccontare il Giro ai lettori, erano scrittori che facevano da spalla ai cronisti sportivi e raccontavano l’Italia delle strade bianche e non ancora asfaltate, ma anche le tante Italie dalle Alpi alla Sicilia, le aree economicamente depresse e quelle che respiravano la ricostruzione, il lavoro industriale e la ripresa economica. Gli scrittori spesso raccontavano l’Italia del Giro sulla Terza pagina dei quotidiani, quella culturale, che per ordine di importanza veniva subito dopo la pagina della politica nazionale e quella internazionale, una Terza pagina che per tante famiglie di lavoratori aveva costituito occasione di formazione culturale. Erano gli anni in cui prevaleva la radio e la Tv era un privilegio, ai cronisti spettava il compito di raccontare il campione, la vittoria, la sconfitta, il guizzo, il tempo di percorrenza, in definitiva la cronaca vera, agli scrittori il compito di alimentare con mano leggera la finzione narrativa, la leggenda senza mai svelarla fino in fondo. In quegli anni scrittori e cronisti sono sempre andati di pari passo, senza mai sovrapporsi, ognuno aveva coscienza del proprio ruolo, un fenomeno che si è protratto fino alla metà degli anni ‘80 del secolo scorso, poi il racconto epico in punta di penna ha ceduto il passo all’ abbondanza delle immagini televisive.

A sinistra il poeta Alfonso Gatto, raccontava il Giro d’Italia sul quotidiano l’Unità e parteggiava per Coppi, il Campionissimo, Fausto il Rosso. Vasco Pratolini fu scelto da Romano Bilenchi, condirettore de il Nuovo Corriere, che chiamava il campione di Castellania Coppi I, come un re. Dino Buzzati nel ‘49 seguì il Giro per il Corriere delle Sera, scelse di parlare dei gregari, gli ultimi che «per contratto devono cedere la ruota al caposquadra». Anche Indro Montanelli, in quegli anni di Guerra Fredda seguì il Giro per il quotidiano di via Solferino. Parteggiava per il cattolico Gino Bartali, riflesso politico del Presidente del Consiglio il democristiano Alcide De Gasperi, come Coppi lo era di Palmiro Togliatti.

È la strada il luogo dove si fanno i giochi, i grandi come Bartali e Coppi tengono in vita «il Barnum» come lo definiva Pratolini, che proprio quell’anno dava alle stampe Cronache di giovani amanti, unendo «cultura alta» e «cultura bassa», come feceva anche Luciano Bianciardi, in risposta a quegli intellettuali comunisti che si mostravano stupiti e sprezzanti verso lo scrittore maremmano che per arrotondare aveva scelto di scrivere sul Guerin Sportivo, diretto da Gianni Brera, dopo aver pubblicato La vita agra e Il lavoro intellettuale.

Anna Maria Ortese, prima donna a seguire il Giro d’Italia per L’Europeo, grazie alla complicità di Vasco Pratolini, parlò di «carovana» termine che ancor oggi indica tutti coloro che sono al seguito della Corsa Rosa. La scrittrice napoletana, profana del mondo delle due ruote, aveva capito fin dalle prime tappe che il Giro si svolgeva su due livelli, quello dei campioni e quello dei gregari: «Si capiva per lo spazio di un lampo, senza possibilità di equivoci, cosa legava le folle ai capitani e ai gregari: la sete di essere, la voglia di un trionfo immediato, colmo di tutti i sapori terrestri, compresi la paura, la pena, la sorpresa, la caduta finale». Tante firme da «Terza pagina» hanno seguito negli anni successivi le cronache del Giro d’Italia o scritto racconti come Mario Soldati, Manlio Cancogni, Franco Cordelli, Paolo di Stefano, Giovanni Testori, Piero Chiara, Stefano Benni, e altri come De Gregori hanno scritto una canzone dedicata a Girardengo o a Bartali «con quel naso all’insù» come canta Paolo Conte.

Che cosa si potrebbe raccontare oggi? L’edizione 105 di quest’anno parte dall’Ungheria di Orbàn, che ha versato parecchi soldi al patron del Giro Urbano Cairo, presidente di Rcs, sulla scia di quelli versati da Netanyahu, che qualche anno fa aveva utilizzato la partenza del Giro in Israele come specchio per le allodole con la scusa del tornaconto turistico. Lo stesso fa Orbàn, amico di Salvini e Le Pen, che nega i diritti fondamentali e respinge gli immigrati alle frontiere. Ci sarebbe da raccontare l’Europa dei muri e dei fili spinati, quella dell’accoglienza agli ucraini fuggiti dalla guerra, l’Europa dell’inquinamento e delle divisioni. E quando « il Barnum» si snoderà lungo la Penisola con i suoi 3410 Km, quale Italia si potrebbe raccontare? Quella del muratore Abdul, multietnica e multirazziale, quella delle povertà diffuse e della solidarietà, la Bella Italia.