È finito il Giro a Verona, ha vinto l’australiano d’Abruzzo. Questa volta ce l’ha fatta, Jai Hindley. Ha respinto le residue velleità di Carapaz ed i fantasmi dell’ultima cronometro. Partito nervoso, piombato dal ricordo di Milano due anni fa, quando in una prova simile, proprio all’ultimo giorno, aveva perso la corsa, stavolta l’incontro con l’amata salita poco dopo la partenza lo ha rimesso in sesto per tempo.

La tappa l’ha vinta Solero, che a cronometro è campione italiano. Prima del via da Budapest Ganna, amico, cognato e avversario di mille battaglie, gli aveva consegnato il testimone. Ultima passerella, e tifo tutto per lui, anche per Nibali nostro. Ma la stagione non è ancora finita, chissà che al Lombardia in autunno, poco prima del definitivo addio …

Sconfitto, si diceva, Carapaz, in attesa per tre settimane che la corsa gli cadesse giù dal pero per gentile omaggio non si sa di chi, e rimasto fregato sul più bello. Trionfante Hindley, ed è giusto così: perché è stato il più forte in salita; perché è il corridore con più prospettiva; e perché, a differenza di due anni fa, quando già avrebbe potuto fare sua la corsa, a questo Giro in ammiraglia aveva Gasparotto, che invece di tentare di affollare sterilmente la top ten ha messo tutti al servizio dell’australiano.  Ha descritto, Hindley, la maglia rosa come la più bella del ciclismo. Lo si attende l’anno prossimo a difendere il titolo, una pratica ormai troppo spesso desueta.

Che Giro è stato? Dipende. Altamente spettacolare, almeno fino al fatale episodio del tappo, destinato a rimanere nella storia, il duello tra Van der Poel e Girmay nei percorsi misti: del resto su quel tipo di terreno l’olandese è un campione e l’eritreo, penso, lo diventerà; e la corsa, recita l’adagio, la fanno i corridori. Nelle volate ha fatto tanto piacere rivedere Cavendish, si attendono conferme da Dainese, ma il feeling di Démare con il Giro ha lasciato gli spiccioli alle ruote veloci. Deludenti, c’è poco da girarci intorno, le tappe di montagna. Se il leader dei GPM, l’ottimo Bowman, in classifica è arrivato a più di un’ora dai migliori, è segno che le vette non sono state esattamente teatro di sfide epiche.

Troppe e troppo astruse le salite, troppo livellamento e troppi corridori telecomandati dai computerini, quanto mai nocivo il ritiro di Bardet. Non è detto che la tendenza a ridurre all’osso le cronometro favorisca davvero lo spettacolo: una trentina di chilometri piatti come un biliardo a metà Giro potrebbero fornire uno stimolo in più agli scalatori a darsi una smossa, se prima non li si tortura con continui, ma improduttivi, saliscendi nelle tappe intermedie.

Tantissima la gente per le strade, come non se ne vedeva da anni, complice anche la scelta di privilegiare le grandi città come scenari per le tappe di trasferimento. Per l’anno prossimo Mauro Vegni ha chiesto all’UCI di spostare di una settimana lo svolgimento della corsa rosa: si conta così di intercettare il 2 giugno in corsa: una festività per richiamare ancor più gente a bordo strada, un po’ come il 14 luglio al Tour; e di smorzare lo spauracchio del tempaccio, in modo da poter programmare con più serenità gli scollinamenti sui duemila metri. Buona mossa. Non accettassero, i gran capi della federazione internazionale, potrebbe essere l’occasione buona per mandarli tutti al diavolo.

Il pubblico del ciclismo, lo si scrive sempre, è conservatore per eccellenza. Forse perfino rompiscatole. Ma il fatto è che sul Pordoi si sono già dati battaglia Coppi e Bartali, e chi lo scala settant’anni dopo non ha sulle spalle solo il peso di scrollarsi di dosso gli avversari, ma anche i fantasmi dei campioni del passato che popolano la strada. Per i corridori è una condanna, ma anche una fortuna, quella di potersi inserire in una storia grande.

La fortuna, insegna il Machia, va saputa cogliere, e qualche volta è giusto pretendere dai corridori uno sforzo in più per onorare quella storia. Il contesto li dovrebbe però agevolare: se si chiede meno tecnologia e più autonomia dal sistema Protour non è per eccessivo attaccamento al passato, ma per assicurare un futuro a quella che rimane, nonostante tutto, una grande vicenda collettiva.