Altro che i soldi dell’Arabia Saudita, è la retorica ad alimentare l’economia del pallone. Basti vedere come il mancato trasferimento di Paulo Dybala dalla Roma all’Al-Qadisiyya si sia trasformato in un goffo poemetto cavalleresco, con il calciatore assurto a eroe e gli arabi (guarda un po’) a perfidi nemici. E così, divisi dallo Ius Scholae, sul carro del vincitore si sono trovati uniti persino i politici. Matteo Salvini «applausi!» e Giuseppe Conte «chapeau!» con i punti esclamativi hanno addirittura riformato il governo gialloverde.

DA DESTRA A SINISTRA, l’intero emiciclo si è sentito in dovere di esaltare questa supposta rinuncia ai soldi sporchi degli infedeli e al tradimento dei valori occidentali come affermazione di superiorità della nostra civiltà e dei nostri costumi. Come se il povero Dybala, dopo settimane di estenuanti trattative con agenti, procuratori, intermediari, stipendi e commissioni, con la sua rinuncia o presunta tale ci avesse infine condotto a trionfare nella battaglia di Lepanto. Figuriamoci i quotidiani e le trasmissione sportive che subito hanno rispolverato l’etica e l’epica dei grandi rifiuti, dove si trasforma il mancato raggiungimento di un accordo economico tra le parti in una scelta di vita e in una dichiarazione di amore per la maglia. Quando l’unico vero rifiuto fu quello di Gigi Riva, che preferì la diserzione alla gloria e mal gliene incolse.

Va infatti ricordato che i tifosi cagliaritani pronti a incendiare l’isola per bloccarne il trasferimento alla Juventus solo pochi anni dopo ne faranno il capro espiatorio di un Cagliari che, esaurita la sua funzione storica, stava lentamente rotolando in serie B. Gli stessi tifosi che nei loro status fino a ieri Dybala è un mercenario e un traditore e oggi un cavaliere senza macchia né paura. Perché l’oscillante umoralità davanti alla replica infinita del medesimo spettacolo da parte del pubblico, che sia tifoso sfegatato o semplice spettatore, politico interessato o giornalista accreditato, non l’hanno certo inventata i social network.

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Ben venga quindi la fine delle trattative e l’esplosione di felicità collettiva, un afflato di Joya come quella che dispensa in campo Dybala con la sua grazia e la sua bellezza. Una ventata di aria fresca per tutti gli appassionati che d’estate si trasformano in contabili delle passioni, discutendo di ingaggi e cartellini, plusvalenze e bonus compresi. Anche perché aveva un po’ stufato questo prolisso romanzetto di cavalieri, d’armi e d’amore, dove non poteva certo mancare la figura della donzella, la mitologica moglie del calciatore cui sempre ci si aggrappa per giustificare l’ingiustificabile, o per non scusarsi di aver detto e scritto castronerie. Dybala non è Bartleby lo scrivano né tantomeno è un eroe.

LA VERITÀ su questa retromarcia su Roma non la sapremo mai, e nemmeno ci interessa dopo settimane di estenuanti trattative puramente finanziarie sapere chi abbia rinunciato a cosa e perché. Ma la becera retorica un tanto al chilo, quella che alimenta l’economia materiale e immateriale di ogni spettacolo, anche no. Anche basta. Ora si torna in campo e Dybala potrà finalmente deliziarci con la sua classe con la maglia della Roma che, dopo il passo falso di Cagliari, attende l’Empoli all’Olimpico nel posticipo domenicale. Senza bisogno di farne l’eroe di Lepanto. O di sprecare versi ampollosi per il pallone, come quel patetico «il mio cuore sanguina» declamato dal condottiero in disarmo Antonio Conte dopo le tre pappine prese a Verona. E soprattutto dopo mesi passati a trattare su cose molto più materiali come l’ingaggio col club, la clausola rescissoria di Osimhen e il prezzo giusto di Lukaku. Sarebbe il caso che il Napoli e il suo allenatore, in campo domani sera con il Bologna alla stessa ora della Roma, ritrovassero un po’ di sana e coincisa prosa, altrimenti ci aspettano settimane di piagnistei e dolori esistenziali come nei peggiori romanzi d’appendice.

INTANTO la seconda giornata di Serie A la aprono oggi le milanesi, reduci da scoppiettanti mercati e faticosi pareggi. Il Milan, che a sera affronta il Parma, dopo averci raccontato per mesi di una rivoluzione tecnologica basata su statistiche e algoritmi che prevede l’ingaggio di giovanissimi e sconosciuti fenomeni, deve adesso convincerci che un allenatore medio è in grado di condurre al successo una squadra media, composta per lo più da scarti del calcio inglese. Mentre l’Inter, che ospita stasera a cena un Lecce indebolito e maltratto, deve dimostrare come la conduzione strapaesana del gioco e degli uomini, che tanto successo ha qui da noi e la rende favorita d’obbligo per lo scudetto, sia in grado di imporsi anche oltre i confini. In quell’Europa dove puntano a fare bene oltre che in patria, a guardare alle scelte fatte su allenatori e calciatori, le due capolista Atalanta (che ospita domani il Torino) e Juventus (in campo lunedì sera contro l’altra capolista Verona). Due squadre che la retorica imperante vorrebbe agli antipodi, l’arrembante provinciale e la storica padrona, e la realtà rivela invece essere assai simili, due società in mano a fondi d’investimento finanziari con un potere di spesa infinito.

Ma la retorica serve appunto solo per alimentare l’economia dello spettacolo, che sia quello del calcio o della politica. La vera Joya è altrove, è nei dribbling e nei cambi di direzione. La gioia, scriveva Deleuze, è nell’immanenza.