Il gioco di strada che scardina il potere
59/a Biennale d'arte di Venezia Il padiglione del Belgio è affidato a «The Nature of Game» di Francis Alÿs. I giochi rubati dall’artista alla vivacità della strada trascrivono la memoria collettiva universale nonostante la loro rappresentatività tracci la diseguaglianza culturale geo-economico
In una Biennale dominata dal politicamente corretto, si tirerà una boccata d’ossigeno con l’esposizione The Nature of the Game realizzata da Francis de Smedt in arte Francis Alÿs (Anversa, 1959), rappresentante del Padiglione del Belgio. Alÿs è un sublime artista, nessun altro possiede la sua potenza decostruttiva e il suo regard poétique. È dunque uno dei maggiori artisti internazionali, anticonvenzionale e intensissimo, distante da qualsiasi intenzionalità retorica e affine ai mutamenti socio-politici mondiali, di cui coglie l’acme del sistema economico capitalistico su cui è impiantata la società contemporanea.
The Nature of the Game, curata da Hilde Teerlinck presenta una serie di nuovi video come DR Congo, assemblati ad altri girati precedentemente, in Iraq, Hong Kong, Repubblica Democratica del Congo, Belgio e Messico. È infatti con Children’s Game, il ciclo video (1999) con cui l’artista prova a riscattare dall’oblio contemporaneo il patrimonio culturale del gioco infantile, nelle sue forme più occasionali ed effimere. Nel suo ripescaggio ludico e popolare, Alÿs compone una sorta di «concatenazione geo-ricreativa» in cui la reminescenza dell’infanzia si contrappone ai nuovi valori dell’epoca consumistica.
Nella serie è riposta una riperimetrazione geografica che parte da Caracoles, Coins e Revolver (1999) girati in Messico, passa in Giordania con Marble, salta dal Belgio con Soundcastles e dalla Francia Elastic, fino in Argentina con Saltamontes e poi in Marocco con Ricochet e via via fino a Wolf and Lamb, Papalote e Hoop and Stick in Afghanistan.
I giochi rubati dall’artista alla vivacità della strada trascrivono la memoria collettiva universale nonostante la loro rappresentatività tracci la diseguaglianza culturale geo- economico.
Avvalendosi dunque della metafora del gioco infantile e attraverso la sua leggerezza del tocco, delinea una anatomia geo-politica sempre incandescente e fragile, che in The Nature of the Game tende a riattraversare una complessità sociale, spesso brutale.
Filmando in soggettiva (dunque annullandosi come filmmaker) ma semplicemente osservando e ammirando, riprende quel candore (a cui siamo disabituati) creato dalle dinamiche dei giochi infantili, antichi e semplici, praticati dai bimbi con oggetti improvvisati e ne riperimetra la culture of disappereance.
In una installazione compatta che condensa un labirinto di schermi video alla serie di sofisticati disegni e dipinti di piccolo taglio (è sublime anche nel disegno e nella pittura oltre che architetto) realizzati tra il 1994 e il 2021.
Alÿs dispiega nel Padiglione un playground globale di pungente impatto poetico che si dissemina tra Shangai e Kabul, la Repubblica Democratica del Congo e Ciudad Juárez. Del resto la sua pratica artistica, che tende a disgregare i codici espressivi, attraverso una prassi comportamentale, quasi illogica, e che oscilla tra post-strutturalismo e post-situazionismo, lo conduce a perseguire un antagonismo concettuale che fonda il suo paradigma «paradox of praxis».
Ed è anche attraverso il détournement che costantemente Alÿs cerca di disarticolare la continuità della storia dell’arte e di organizzare delle crepe, riscrivendone le sue contingenze.
Alÿs che ha esposto nei musei e nelle kermesse di tutto il mondo, grazie a questa prassi di spostamento concettuale, ha inverato opere epiche come Paradox of Praxis 1 (Sometimes Doing Something Leads to Nothing, 1997), When Faith Moves Mountains (2002) a Lima, The Green Line (Sometimes Doing Something Poetic Can Become Political and Sometimes Doing Something Political Can Become Poetic, 2004) in Palestina, The Modern Procession (2002) a New York, Reel-Unreel (2011) a Kabul. Fino a Lada Kopeika Project (2015) realizzata per Manifesta 10, a San Pietroburgo, in cui l’artista sviluppando un ideologico sogno giovanile del 1981 (poi irrealizzato) – intraprendere un viaggio dal Belgio a Leningrado, a bordo di una Lada Riva – trenta anni dopo lo sublima con l’indignato intervento di schiantare la propria auto (con lui stesso a bordo) contro un albero e abbandonarla nei giardini del cortile del Palazzo d’Inverno.
L’opera nasceva nel drammatico climax politico in cui si avvicendava la crisi tra la Russia e l’Ucraina. In quel turbolento scenario diplomatico e politico, Alÿs partecipava schierandosi contro le politiche aggressive putiniane e rianalizzando la storia nelle sue disillusioni ideologiche e nelle sue sconfitte.
SCHEDA
Alcune tappe in Laguna, fra grandi mostre
È pantagruelico il banchetto veneziano, dopo gli anni di «astinenza pandemica». E i numerosi eventi collaterali invitano a un percorso a tappe fittissimo. Intanto, Joseph Beuys alla Fondazione Cini (a cura di Luca Massimo Barbero, fino al 2 ottobre): una quarantina di opere focalizzate su due temi di ricerca dell’artista – la figura umana e il simbolico ruolo dell’immagine animale. Marlene Dumas (1953, Città del Capo, Sudafrica, vive e lavora a Amsterdam) è la regina di Palazzo Grassi con la sua prima personale italiana open-end, allestita con oltre cento opere dall’artista insieme a Caroline Bourgeois.
Fra le pioniere, ci sarà Louise Nevelson (nata vicino Kiev nel 1899, emigrata poi negli Stati uniti con la famiglia). Il cuore di Persistence alle Procuratie Vecchie (che riaprono dopo 500 anni con il restauro di David Chipperfield Architects Milan) saranno le sue sculture di grandi dimensioni in legno dipinto, quasi sempre in nero: fu lei nel ’62 a rappresentare l’America ai Giardini. Inoltre, per la prima volta in Italia, sarà esposta la 20. malaktion, la ventesima azione pittorica creata e presentata da Hermann Nitsch presso il Wiener Secession di Vienna nel 1987. Ora sarà a Venezia negli spazi di Oficine 800 alla Giudecca.
Antony Gormley sarà invece protagonista insieme a Lucio Fontana della rassegna in un luogo-gioiello: è il negozio Olivetti sotto i portici di piazza san Marco, realizzato da Carlo Scarpa nel ’58): disegni, lavori su carta e sculture, fino al 27 novembre.
Afro, in quel ventennio che va dal 1950 al 1970 (dall’Italia all’America e ritorno) approderà a Ca’ Pesaro (nel disegno di Elisabetta Barisoni e Edith Devaney, in collaborazione con il suo archivio), mentre al Museo Archeologico nazionale ci sarà l’artista inglese Marc Quinn, con Historynow (occasione anche per riscoprire il cortile cinquecentesco, opera di Vincenzo Scamozzi).
Al Guggenheim è ora invece di Surrealismo e magia, a cura di Grazina Subelyte (fino al 26 settembre). Ruota attorno a temi quali alchimia, la metamorfosi, i tarocchi, la sostanza totemica, la dimensione dell’invisibile e quella cosmica. a. di ge.
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