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Il filo rosa tra Coppi e Pantani

Il filo rosa tra Coppi e Pantani

Giro d'Italia Da Castellania a Oropa, la quattordicesima tappa percorre la memoria del ciclismo nei luoghi dei due campioni, uno troppo moderno per il tempo che ha vissuto, l’altro troppo antico per la sua epoca

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 21 maggio 2017

La strada che porta dalla collina di Coppi alla montagna di Pantani rappresenta la memoria del ciclismo, e del Paese, che si srotola sotto le ruote del gruppo e della gente al seguito. Da Castellania, un campanile su un cocuzzolo a guardia della propaggine estrema della pianura padana, Fausto Coppi partì quasi bambino per andare garzone in una macelleria di Novi Ligure. Poi l’esempio di Costante Girardengo, illustre conterraneo, un fisico che era un’arma impropria per le arene di quel tempo, l’incontro con l’Orbo Cavanna: ed ecco che sulle spalle all’apparenza gracili dell’uomo fu edificato il mito del campione, anzi Campionissimo.

A OROPA, in vetta al santuario, arrivò invece da solo Marco Pantani da Cesenatico, il Pirata, a mettere il sigillo sulla scorribanda sua più memorabile. Quel salto di catena all’imbocco dell’ascesa dovette sembrargli l’ultimo anello di una catena di beffe atroci, incominciata con un’auto che lo centra in corsa tra Milano e Torino, e proseguita con un gatto che attraversa la costiera amalfitana e fa strike in gruppo, interrompendo il sogno del primo trionfo al Giro. Ha scritto Gianni Mura che Pantani cominciò a morire a Madonna di Campiglio, in quello stesso 1999, per l’incapacità di accettare lo scandalo del doping che gli si era abbattuto addosso; ma che già in seguito a quella folle rincorsa di Oropa, qualche giorno prima, quando rimontò cinquanta corridori senza degnarsi di guardarne in faccia alcuno, qualcosa in gruppo si era rotto. Parla per tutti gli umiliati la faccia incredula di Jalabert, uno di quei magnifici perdenti per cui i francesi fanno il tifo, che nell’occasione era stato l’ultimo a cadere.

EPPURE IL FILO ROSA che unisce le due vicende di Coppi e di Pantani non ha un andamento diacronico. Le due storie umane e sportive si vengono anzi incontro, si intersecano e non si sfiorano: troppo moderno Coppi per il tempo che ha vissuto, troppo antico Pantani per l’epoca sua. Il ciclismo, si è già scritto, induce al conservatorismo, proprio a causa del rapporto ossessivo che conserva con la propria memoria.

Per i palati fini di tempi che a noi sembrano mitici, era stata proprio l’irruzione di Coppi a metter fine all’epoca degli eroi. Valgano per tutti le parole di Curzio Malaparte, certo di parte per via del campanile, ma che nello spiegare ai francesi il significato profondo della rivalità tra Coppi e Bartali si faceva interprete di un sentire allora comune: «In Bartali prevale il contadino, con la sua mistica elementare, il suo attaccamento ai valori tradizionali della terra. In Coppi prevale invece l’operaio, sebbene anche lui sia nato in una famiglia di contadini. Se in Bartali predomina l’elemento umano, in Coppi prevale quello meccanico. C’è sangue nelle vene di Gino. In quelle di Fausto c’e benzina». L’uomo nuovo industriale e moderno che seppellisce, cioè, la vecchia Italia contadina. Non disprezzando, e alla luce del sole perché all’epoca non c’era niente di proibito, il ricorso all’alchimia e alla chimica, mentre il fisico arcaico di Bartali era intollerante agli stimolanti.

LA VICENDA DI COPPI è una vicenda corale, così come il momento collettivo prevale nella società italiana del dopoguerra, sospesa tra distruzione e ricostruzione, attraversata da profonde passioni popolari. Le masse sono presenti sulla scena nella vita quotidiana, con le grandi fabbriche che aprono i cancelli; nella vita politica, con i grandi partiti-chiesa; davanti alla radio e per le strade, divise, appunto, tra Fausto e Gino. E corale è la sfida tra i due, un simbolo perfetto, ancorché presunto, della spaccatura tra i democristiani e le sinistre, i custodi della tradizione e i libertini. Corale la discussione attorno a Giulia Occhini, colpevole di insubordinazione al patriarcato, ma anche di aver umanizzato il Campionissimo che non le apparteneva, perché apparteneva a tutti gli italiani, e di averlo fatto tornare solo Fausto Coppi nel momento in cui lei si faceva Dama Bianca. Corale il lutto espresso, da Coppi e dall’Italia tutta, per la tragedia di Superga, altro marchio dell’epoca, con il ciclista che dedica agli invincibili del calcio la sua più alta impresa, la cavalcata sui cinque colli tra Cuneo e Pinerolo nel ’49. Corale anche la fine, dopo una partita di caccia con gli amici in Alto Volta, e l’ultimo saluto a Castellania con tutto il paese che idealmente gli si abbraccia attorno, e con la mamma Angiolina che si abbraccia a Gino Bartali.

 

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PANTANI, rispetto alla rivoluzione di Coppi, rappresenta una restaurazione. Non usa auricolari e radioline, si allena senza cardiofrequenzimetro. Come si vince un Giro d’Italia? «Ci si allena da dicembre, poi si va sempre più forte e si cerca di avere la condizione giusta a maggio». Non ammette il ricorso al doping, e su questo rifiuto arcigno si costruiscono i misteri e le teorie attorno alla squalifica che gli fu fatale, e ultimamente anche attorno alla sua morte. Di certo c’è che allora l’ematocrito alto non portava a una squalifica, ma a una sospensione cautelare per motivi di salute. Avrebbe potuto ritornare in sella, e alla vittoria, di lì a quindici giorni, ma l’umiliazione e l’orgoglio lo travolsero.

L’EPOPEA di Pantani non è poi corale, ma singolare. La sua lotta non ha un antagonista, è contro se stesso. Non ha amici in gruppo con cui andare a caccia, se non i fidi gregari convocati dall’ex comandante partigiano Luciano Pezzi alla Mercatone Uno per costruire la «nazionale romagnola».

Solitario è l’epilogo della vicenda, in una camera d’albergo, con la mamma Tonina che al funerale non ha una spalla su cui piangere. Le rimane però la forza di lanciare un’invettiva a tutto il circo per come ha esaltato il campione Pantani e poi triturato l’uomo Marco.

Eppure anche oggi, lungo la salita che porta il gruppo verso Oropa, fin dalle nove del mattino c’è una calca entusiasta per l’attesa di un olandese in maglia rosa che chiamano la farfalla e di un indio con la faccia antica che gli dà la caccia e che viene da Combita, Colombia. Sotto gli occhi della gente si svolge l’ennesimo capitolo di un romanzo popolare che, a saperlo leggere, ci racconta da un’angolo privilegiato la storia di un paese.

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