Il festival, il red carpet e le «piccole cose da nulla»
Berlinale 74 Un «flash mob per la democrazia», gli orrori delle Case Magdalene in Irlanda nel film tratto da Claire Keegan. «Small Things Like These», diretto da Tim Mielants con Cillian Murphy, ha aperto la manifestazione; le donne chiuse nelle lavanderie per essere «redente», l’omertà della società
Berlinale 74 Un «flash mob per la democrazia», gli orrori delle Case Magdalene in Irlanda nel film tratto da Claire Keegan. «Small Things Like These», diretto da Tim Mielants con Cillian Murphy, ha aperto la manifestazione; le donne chiuse nelle lavanderie per essere «redente», l’omertà della società
Per capire Small Things Like These, il film di Tim Mielants scelto per inaugurare la Berlinale 74, bisogna andare indietro nella storia dell’Irlanda, tra il 1922 e il 1996 quando finalmente le Magdalene Laundries, gestite per qualche anno dalla chiesa protestante per passare poi a quella cattolica, vennero chiuse. Si scoprirà allora una realtà vergognosa di violenza, sopraffazione, sfruttamento che unisce le monache, responsabili di tali istituti, lo stato irlandese, la polizia, le varie assistenze sociali e le famiglie, insomma tutte quelle istituzioni «totali» che in nome di un qualche dio o onore o similari umiliano l’umanità, nel caso specifico le donne che dalle stesse sono sempre state le più massacrate. Certo nella scelta ha contato senz’altro il cast, visto che il protagonista è Cillian Murphy, l’attore hollywoodiano in corsa agli Oscar per Oppenheimer – tra i titoli favoriti all’Academy – che garantisce il glamour del tappeto rosso malgrado una prova qui non esattamente entusiasmante.
MA UN’APERTURA un po’ scintillante serve forse a equilibrare le molte polemiche che hanno preceduto il festival, in particolare quelle legate la presenza di alcuni politici dell’AfD, il partito di estrema destra tedesco, annunciati nella serata e poi disinvitati dalla Berlinale stessa. Un tema questo che è tornato ieri nella conferenza stampa con la giuria del concorso, e che ha spinto, a sottolineare ancora di più la presa di distanza, l’organizzazione del festival a convocare una manifestazione sul red carpet a cui hanno aderito personalità del cinema e della cultura, proiettando nello stesso momento sul grande schermo accanto all’entrata del Berlinale Palast la frase: «Difendi la democrazia».
Il film dunque, Small Things Like These, le «Piccole cose come queste» che è tratto dal romanzo della scrittrice irlandese Claire Keegan – in Italia uscito per Einaudi come Piccole cose da nulla – autrice di quel Foster che aveva ispirato The Quiet Girl (2022) anch’esso presentato alla Berlinale, e come questo ambientato negli anni Ottanta irlandesi. Ma di cosa si tratta? Le «pie» lavanderie in cui sono state rinchiuse almeno diecimila donne e ragazze, molte delle quali vi sono morte, erano delle orrende galere da cui non potevano neppure uscire. Private di ogni diritto, venivano costrette a lavorare in schiavitù, senza alcuna retribuzione dalle monache. Lì dentro finivano le donne «perdute» per essere redente, chi aveva commesso qualche reato, chi veniva da famiglie povere, le ragazze incinte senza marito o perché vittime di stupri – spesso famigliari. I loro bambini venivano venduti a famiglie benestanti dove, come era detto alla madri, sarebbero cresciuti in modo giusto. Le testimonianze delle sopravvissute che hanno denunciato parlano di denutrizione, mancanza di igiene, condizioni umilianti, torture fisiche e psicologiche, abusi, privazioni – persino degli abiti che erano sostituiti da una divisa fagotto usata quasi come un marchio. E tutto nell’omertà complice della società, la stessa che avvolge la cittadina di New Ross: tutti sanno ma nessuno parla, ribellarsi potrebbe costare un prezzo troppo alto alla propria tranquillità.
Lo sa anche il protagonista, Bill Furlong (Murphy) un tipo silenzioso e solitario la cui faccia dall’inizio manifesta un tormento. Intuiamo qualcosa accaduto nell’infanzia vista la sua attenzione ai più piccoli, lui stesso ha cinque figlie, la moglie sembra preoccuparsi unicamente delle cose concrete, manca poco a Natale, ci sono i regali da fare, il coro delle suore in cui canta una delle loro ragazze, lei sogna un paio di scarpe nuove. Che poi il marito appaia cupo più del solito, è un disagio passeggero, come le sue insonnie e quelle fughe all’alba verso il lavoro col carbone. Solo che lui è sempre più a disagio nella quotidianità di gesti ripetuti – le mani nere lavate con la faccia prima di entrare in casa, le consegne, la brutalità che lo circonda. Stiamo bene noi? Chiede alla moglie davanti alla tv. Sì dice lei, io risparmio e porto ogni mese qualcosa in banca che è appunto la preoccupazione dominante fra le famiglie come la sua, nelle case piccole, col grigiume intorno, la disoccupazione che cresce insieme al disincanto di quel 1985, e che vale impicciarsi per farsi del male? Solo che poi accade qualcosa che costringerà l’uomo a mettere insieme i frammenti dolorosi dei suoi ricordi, di ragazzino orfano, con la mamma quasi bambina morta troppo presto, e lui cresciuto nella famiglia dove lei nonostante un figlio senza matrimonio era stata accolta come cameriera.
È DUNQUE la tensione fra il disagio del protagonista, che pian piano si fa consapevolezza, e la comunità indifferente e pettegola a cui appartiene – senza escludere da questo neppure la propria famiglia – l’idea su cui lavora la narrazione così come quella del romanzo – la sceneggiatura è di Enda Walsh – per riflettere il microcosmo sociale che abitano i protagonisti, e quello che potrebbe diventare un potenziale gesto di ribellione, la scelta nel «suo piccolo» del personaggio, quelle «piccole cose» in cui echeggia Arundhati Roy, di cambiare un po’ il mondo. La regia di Mielants però disperde totalmente le possibilità del materiale su cui lavora, dimostrando di non essere in grado di controllarlo, e preferisce affidarsi a una serie di «quadri» fin troppo didascalici (la scena delle mani lavate appunto…), che sembrano l’illustrazione guidata della scrittura. Non c’è cinema in questo film, neppure un attimo, non c’è spazio per il movimento ingabbiato in un paesaggio monocorde (Emily Watson nel ruolo della tremenda madre superiora è molto stonata), in una serie di affermazioni messe insieme secondo uno schema quasi come nel puzzle che sogna sin da piccolo Bill. Poteva essere una bella occasione, che è andata decisamente perduta.
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