L’insegna di fronte alla stazione della metro Pushkinskaya dice ai passanti: il nome cambia, l’amore resta.

Poche cose come questa specie di bungalow costruito a Mosca tra palazzi di grandeur sovietica raccontano la Russia degli ultimi trent’anni. Qui alla fine di gennaio del 1990 aprì il primo McDonald’s dell’Unione sovietica.

Strani tempi quelli. Mikhail Gorbacev passato in pochi anni dagli storici discorsi alla Duma allo spot della catena Pizza Hut in televisione; Boris Eltsin dalle barricate di fronte al palazzo del governo ai balletti ebbri in campagna elettorale. Non sono meno strani questi, con McDonald’s via dalla Russia per ragioni di opportunità e il magnate del petrolio Aleksander Govor che si compra a prezzi politici decine di ristoranti e li chiama Vkusno e Tochka. Significa «buono e basta» e adesso suona un po’ come «mangia e taci».

IN MEZZO trent’anni di sforzi che i russi hanno compiuto per scendere a patti con la storia nazionale, prima ancora che con l’Occidente, sforzi terminati quando il capo del Cremlino, Vladimir Putin, ha deciso con un paio di generali di spingere l’esercito dentro l’Ucraina.

Già nel 2014, al tempo dei primi scontri nel Donbass, le autorità russe avevano ordinato la chiusura del McDonald’s di Pushkinskya, e già allora il giornalista russo Leonid Rogozin aveva tirato un parallelo fra gli eventi. «L’era post sovietica se ne sta completamente andando», aveva scritto sul suo blog: «Chi ha passato ore in coda il giorno dell’inaugurazione, nel 1990, può capire che cosa intendo. Certamente quella Russia non era uno stato efficiente, ma il periodo di relativa prosperità e di semilibertà che abbiamo vissuto è stato senza dubbio il migliore negli ultimi cento anni di esistenza del nostro paese, il paese più tormentato e più pericoloso d’Europa».

LE PAROLE di Rogozin incrociavano quell’estate le riflessioni di un noto politologo, Fedor Lyukyanov, che dirige la rivista La Russia negli Affari Globali ed è considerato ancora oggi uno degli architetti della politica estera di Putin.

Lyukyanov sosteneva che l’identità sovietica fosse scomparsa del tutto dalla Russia, e criticava il Cremlino per non avere ancora adottato al suo posto «alcun progetto di sviluppo nazionale su larga scala, nonostante le richieste legittime in arrivo dalla popolazione: Putin ha raggiunto gli obiettivi che aveva fissato quando è salito al potere, ma adesso dovremmo decidere nuovi traguardi». In quel contesto, stando sempre a Lyukyanov, la guerra in Ucraina, «cominciata per un battibecco geopolitico», sarebbe diventata un punto decisivo per stabilire il futuro della nazione.

Il caso McDonald’s può essere considerato per certi versi il segno materiale di un processo che pare oggi concluso con un clamoroso fallimento. L’ingresso nel sistema economico globale avrebbe dovuto portare a milioni di russi più libertà e più responsabilità. Le continue accuse dell’élite putiniana a quello che oramai è definito «Occidente collettivo» dice che qualcosa è andato incredibilmente storto.

IL MAGNATE Govor fa sapere che l’accordo firmato con gli americani prevede una finestra di quindici anni per il loro ritorno nel paese. Come dire: una porta è ancora aperta, e non si tratta soltanto di panini. Un elemento hanno in comune la storica apertura del ’90 e quella con il nuovo nome della scorsa settimana. Le interminabili file di persone in attesa di entrare e consumare.

La prima volta parecchi credevano magari di vedere l’Occidente nelle patatine fritte. Era un desiderio legittimo, anche se adesso può apparire naif. Tutti sappiamo come è andata a finire: dopo le riforme liberiste degli anni Novanta ad alcuni non rimase che il panino.

Ma adesso che cosa cercano i russi? Che cosa pensano di trovare nella svolta radicale che Vladimir Putin ha intrapreso e che la maggior parte della popolazione sembra comunque sostenere? Servirà tempo per capirlo, tenendo sempre uno sguardo sulle vetrine illuminate di quello strano bungalow poco lontano dalla stazione Pushkinskaya.