Il fallimento della Brexit, oltre il rito dell’addio alla regina
Gran Bretagna Nel Regno unito dopo l’uscita dall’Ue sono caduti i settori produttivi. Dilaga una spirale di stagflazione, con reazioni popolari e scioperi come non si vedevano dal secolo scorso. Un sondaggio Ipsos mostra che il 45% degli intervistati ritiene che la sua vita familiare sia peggiorata dopo la Brexit, nel 2021 era il 30%. Un monito per tutti i sovranismi
Gran Bretagna Nel Regno unito dopo l’uscita dall’Ue sono caduti i settori produttivi. Dilaga una spirale di stagflazione, con reazioni popolari e scioperi come non si vedevano dal secolo scorso. Un sondaggio Ipsos mostra che il 45% degli intervistati ritiene che la sua vita familiare sia peggiorata dopo la Brexit, nel 2021 era il 30%. Un monito per tutti i sovranismi
La morte della Regina Elisabetta sta tenendo la popolazione britannica col fiato sospeso oltre la ritualità – scrive la stampa britannica -, forse perché dopo una lunghissima permanenza al trono questo non era proprio il momento di andarsene.
Un momento terribile per il paese che un secolo fa aveva ancora il più grande impero del mondo, e nella regina Elisabetta trovava, in parte, il solo punto di riferimento, vista la pochezza della classe politica attuale rispetto ad una crisi profonda.
I dati non lasciano dubbi: il Regno Unito è entrato in una spirale di stagflazione che sta suscitando reazioni popolari e scioperi a catena di diverse categorie come non si vedevano dal secolo scorso.
Avrà un bel da fare Liz Truss la nuova premier che si ispira alla Thacher che smantellò il sistema di welfare inglese, umiliò i sindacati, privatizzò una gran parte dell’economia che era in mano pubblica.
Oggi la signora Truss deve fare i conti con una realtà ben diversa che la porta ad annunciare misure che vanno nella direzione opposta a quella politica economica che abbracciò negli anni ’80 la lady di ferro: Truss ha infatti annunciato un possibile aumento di 100 miliardi della spesa pubblica per contenere il costo dell’energia per le famiglie che è passato da una media di 1971 sterline dell’anno scorso a oltre 3.500 di quest’anno e si prevede che salirà a 6.000 sterline nel 2023.
Al di là della crisi energetica che colpisce tutti i paesi europei, il Regno Unito ha fatto registrare una caduta in tutti i settori da quando è uscita dall’Ue.
Sono scesi decisamente gli investimenti nell’economia reale delle imprese private, l’inflazione cammina ormai da tempo a livelli più alti di tutti i paesi della Ue, ha superato la soglia del 10% e secondo la Bank of England salirà al 13% nei prossimi mesi, per altri istituti specializzati dovrebbe arrivare al 17%.
Dall’uscita dalla Ue ad oggi il Pil nel Regno Unito è cresciuto del 3,8% mentre la media della Ue è stata dell’ 8.5 per cento. È vero, è crollata la disoccupazione al 3,8 per cento, ma le imprese chiudono o riducono l’attività, specie nei settori tradizionali, perché non trovano più manodopera, ovvero quelle centinaia di migliaia di giovani che ogni anno entravano nel Regno Unito ed erano disponibili a fare qualunque lavoro, o arrivavano a frotte per imparare la lingua, una delle prime industrie della UK.
La chiusura delle frontiere ha prodotto un danno al mercato del lavoro, così come il ritorno a dazi doganali non ha di certo dato un grande impulso all’industria inglese quanto ha fatto aumentare il costo della vita.
Non a caso un recente sondaggio Ipsos mostra che il 45% degli intervistati ritiene che la sua vita familiare sia peggiorata dopo la Brexit, l’anno scorso era il 30%!
Insomma, l’uscita trionfale del Regno Unito dalla Unione Europea, la Brexit che doveva rilanciare l’economia di sua maestà britannica, riportare il Regno unito ai fasti imperiali di un tempo che fu, si è risolta in pochi anni in un fallimento.
Anche l’auspicato abbraccio storico con i fratelli Usa non ha compensato assolutamente la fuga di grandi imprese multinazionali, la caduta dei flussi turistici, ed ha portato ad un crescente deficit la bilancia commerciale.
Il fallimento della Brexit è un monito per tutti quei partiti sovranisti che pensano che la risposta ai guasti della globalizzazione capitalistica risieda nel nazionalismo, nella chiusura delle frontiere, nel “prima di tutto…noi!”. Certo, questo non significa sposare la globalizzazione tout court come fa il Pd e gli altri partiti “progressisti” europei, significa che bisogna lavorare e impegnarsi per un’altra globalizzazione.
Era quello che auspicava Walden Bello, economista filippino, che fu il primo a parlare di “deglobalizzazione”, intesa come lotta a questo sistema di economia mondo e creazione di una Altra Economia (vedi Deglobalization: Ideas for a New World Economy, Zed Books, London, 2002).
Purtroppo, il movimento New Global , nato a Porto Alegre nel 2001 e diffuso in vari parti del mondo, in particolare in Occidente e dall’America Latina, non ha tradotto in proposte semplici e concrete l’alternativa a questo capitalismo globalizzato.
E paradossalmente è stata la destra neofascista e razzista che ha trovato il modo di rispondere, in modo demagogico ma comprensibile, al malessere provocato dalla globalizzazione. Blocco all’immigrazione, difesa dell’industria nazionale, dazi doganali, sono i cavalli di battaglia di una destra che raccoglie consensi tra i ceti popolari e la classe operaia, senza mettere in discussione il modo di produzione capitalistico, ma solo trovando facili capri espiatori.
Forse il fallimento della Brexit, se ben spiegato e fatto conoscere, potrà aprire gli occhi a chi ingenuamente ha pensato che la risposta nazionalistica sia quella giusta per uscire da questa crisi epocale.
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