Internazionale

Il disordine razionale di Algeri

Il disordine razionale di Algeri – foto di Luca Pakarov

Algeria Nell’anniversario dell’indipendenza dai francesi (5 luglio 1962) il ritratto di una città in cerca di un equilibrio tra drammatiche accelerazioni della storia e contraddizioni sociali

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 5 luglio 2018

Nella strada dall’aeroporto al centro, il tassista non può fare a meno di indicare alla sinistra la moschea di Algeri soprannominata Bouteflika, come il presidente in carica, la più grande dopo La Mecca e Medina, con un minareto che si alza 50 metri più in alto di quello di Casablanca, concepita allo stremo di una gara di fede in Maghreb.

UNA BESTIALITÀ DA 3MILIARDI di dollari e con i lavori appaltati per lo più ad aziende cinesi che termineranno nel 2019. Ma i tanti lavoratori cinesi giunti nel paese si incrociano, al massimo, in aeroporto. In un anfiteatro naturale che abbraccia il porto, spiccano i bianchi edifici di Algeri. Il turismo qui è allo stato primordiale, tanto che è sufficiente una reflex per attirare curiosità.
Intorno il caos gestito dal fischietto di vigili sbraccianti, insaccati in divise blu tagliate male, che fra un sms e una chiacchiera con i passanti, assolvono il compito dei semafori mancanti.

I pedoni sono il grande mistero, la propensione di raggiungere l’altra sponda del marciapiede di piazza 1er Mai senza causare incidenti, indica come siano inseriti nel bioritmo del traffico. Giorni fa è stato staccato internet in tutto il paese durante gli esami di maturità, la Scuola italiana Roma ad Algeri l’anno passato per scaricare le prove è dovuta ricorrere alla linea diplomatica protetta dell’ambasciata.

L’ALGERIA RESTA UN PAESE difficile da raggiungere specialmente con un passaporto italiano a cui, per il principio di reciprocità del trattamento consolare, il visto è concesso solo dopo aver fornito documenti di ogni genere. Eppure l’Italia è il primo partner economico dell’Algeria con un interscambio di circa 4,76 miliardi di dollari e 180 aziende che lavorano sul territorio, tanto che a breve si vorrebbe aprire nella capitale una Camera di commercio. Capitale del quarto paese più ricco d’Africa, Algeri è risorta dalle ceneri del colonialismo con un modello socialista di nazionalizzazioni delle imprese, iniziato negli anni ’60 con Houari Boumedienne, che ha lasciato qualche briciola di benessere, come le case popolari.

Viene fatto notare, più volte, che si vedono pochi homeless, ma guai a parlare a un algerino di Africa, il Maghreb è un’altra cosa, spiegano mentre agitano le mani e ti fissano dritto negli occhi, siamo cugini degli italiani. Perfino nell’inno della storica squadra di calcio di Algeri, il Mouloudia, si canta che dopo la vittoria si andrà a festeggiare in Italia e, nella Casbah, c’è un murales con un tifoso in Vespa con accanto scritto, in italiano, «La capitale è nostra».

LA CASBAH È IL CUORE della città con un ventricolo basso e uno alto: il primo è il mercato, il disordine razionalizzato, l’immondizia del bazar e la grande moschea di Ketchaoua; in alto fra gli intricati vicoli, il silenzio, le calce bianca delle moschee arroccate come quella di El Kébir, le discrete botteghe degli artigiani desiderosi di mostrare il vaso in fase di decorazione o i sandali da rifinire. Omar che ci è nato abbonda di parole tessendo francese, italiano, maltese, arabo, spagnolo e turco, ovvero le lingue che costituiscono l’algerino parlato, e mi mostra Rue du Diable.

UN’INSIDIOSA SALITA si fa buia tra gli edifici; qui nella guerra franco algerina, venivano canalizzate le truppe francesi per essere prese di mira dall’alto: «Questa via non l’hanno mai superata», dice orgoglioso. Non distante c’è il museo di Ali La Pointe, l’eroe nazionale immortalato da Gillo Pontecorvo ne La battaglia di Algeri.

È piuttosto un mausoleo ricavato in un’ala del palazzo che venne fatto brillare uccidendo quasi trenta persone, La Pointe incluso. Da fuori si può ancora osservare l’edificio sventrato dall’esplosione. A inizi ‘800 qui vivevano in maniera pacifica ebrei, musulmani e cristiani, Algeri aveva scuole e università importanti, dopo la cacciata dei francesi nel paese si contarono oltre 6milioni di analfabeti e divisioni insanabili.

Resta a monito quella che fu la prigione per i rivoluzionari, da quest’anno trasformata in un museo. Lo Stato parla di una Casbah da riqualificare, sebbene sia patrimonio dell’Unesco dal ‘92 e la tentazione nemmeno troppo velata, è quella di farne un albergo diffuso. Murad, insegnante, afferma con amarezza che ci sono pochi politici di Algeri e che quindi sono incapaci di valorizzare la Casbah partendo proprio dalle famiglie che vivono lì. Uscendo si arriva davanti al Teatro Nazionale dove c’è quella che potremmo chiamare la borsa della città, in cui gli urlatori sotto i portici cambiano le valute in dinari, tutto alla luce del sole e conveniente più di una banca.

BOULEVARD CHE GUEVARA (in memoria del discorso tenuto ad Algeri nel ‘64) è a due passi e da lì si raggiunge il quartiere di Bab El Oued, uno dei più popolari con i suoi palazzoni fioriti di parabole. Come in gran parte della città dopo le 21 sono poche le attività che restano aperte e ancora meno le persone in strada, al massimo c’è chi ai crocicchi gioca a domino e gode della brezza del mare. Ma nessuna donna.

Contraltare di Bab El Oued è il quartiere di Sidi Yahia, un viale di vetrine e ristoranti dove una gonna più corta o una sigaretta fumata in strada da una donna che gira sola non vengono notate. Le donne hanno in generale più diritti degli altri paesi del nord Africa, sulla carta quasi nulla viene imposto. Però solo quelle dell’alta borghesia sono in grado, ad esempio, di divorziare senza il rischio di ritrovarsi senza nessuna forma di mantenimento.

LOCALI TUTTI AL MASCHILE sono le tbarna, i rari (e invisibili) dove farsi una birra, con porte nere, senza insegne e con lo spioncino. All’inizio ci si sente un tantino osservati, c’è un clima di sospetto. È Kaddour a dirmi che si tratta di un retaggio del periodo del terrorismo, che prima potevi comprare dell’alcol anche davanti a una moschea: «Tutti bevono ma si nascondono». Kaddour che è un commerciante, descrive Algeri come un mondo a sé, più chiusa rispetto per esempio alla Cabilia, dove gli abitanti di Algeri vanno a divertirsi.

Un paese bloccato, guidato dal ’99 dal presidente Bouteflika del Fln ma dove non si percepisce un pericolo di radicalismo: «C’è un forte sentimento religioso ma abbiamo anche avuto 200mila morti pochi anni addietro. Nessuno ha più voglia di contare i cadaveri».

La sfiducia si può leggere anche dall’affluenza nelle ultime elezioni del maggio 2017 in cui solo poco più del 30% degli aventi diritto si sono presentati alle urne confermando gli uomini al potere. È come se ad Algeri mancasse un punto d’equilibrio fra lo stallo del lasciarsi vivere e le accelerazioni drammatiche della sua storia, una città piantata sul suo impeto morale che si consuma nelle contraddizioni sociali.

Espulsioni facili e arresti «razziali»
A inizio di quest’anno Human Right Watch ha denunciato le espulsioni di centinaia di subsahariani fra cui richiedenti asilo e minori; l’International Rescue Committee ha stimato in circa 3.000 gli espulsi nel 2018. L’Algeria da paese di emigrazione verso l’Europa è poco avvezzo alle ondate migratorie, con l’aggravante di una società venata di razzismo. Per Amnesty International gli arresti ad Algeri e sobborghi vengono eseguiti sulla base del profilo razziale. In migliaia fuggono dalla guerra in Mali – in cui sono coinvolte anche Burkina Faso e Niger – e che decidono di affrontare il deserto algerino invece di avventurarsi nel caos libico. Qui rischiano due mesi di prigione per immigrazione clandestina in quanto non sono previsti né permessi di soggiorno né regolarizzazione. Hrw ha raccolto le testimonianze delle violenze e delle condizioni disumane in cui sono detenuti i migranti a Zeralda (a 30km dalla capitale) o nel campo di Tamanrasset (al confine col Niger).

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