Il diritto alla fuga dei migranti incrina il nazionalismo marziale dei postfascisti
Commenti

Il diritto alla fuga dei migranti incrina il nazionalismo marziale dei postfascisti

Le politiche migratorie e il razzismo istituzionale servono a filtrare forza lavoro per il mercato, a dividerla, a renderla ricattabile e, in generale, a governare la società

Pubblicato più di un anno faEdizione del 5 marzo 2023

Capitalismo razziale. Questa è il sistema che tiene insieme i decreti flussi che l’estrema destra vuole rinnovare e le idiozie sulla sostituzione etnica. La criminalizzazione dei salvataggi in mare e le affermazioni sui migranti annegati a Cutro.

Qualche morto, alla spicciolata, è una «statistica», al più un evento legato alla sorte avversa, 70 o più, tutti insieme, sono una tragedia. Nella logica dello spettacolo, il caso eccezionale assolve la normalità del massacro a mezzo di legge. Si piange una volta e si evita di fare i conti con tutte le volte che altri migranti sono morti. I responsabili delle politiche delle frontiere dovranno fingere che qualcosa non vada nella strategia della persecuzione delle ong: bisogna «andare a prenderli». 100.000 o 500.000, con i decreti flussi e accordi bilaterali. Quanto serve al mercato del lavoro. Vanno comunque educati, specifica il ministro dell’Agricoltura Lollobrigida. Sia mai.

Alcuni economisti ci avevano spiegato che i migranti servono per i lavori che «gli italiani non vogliono fare». Come se altre nazionalità non vedessero l’ora di fare lavori precari, pericolosi e mal pagati. Ignorando che sono i datori di lavoro e lo Stato a creare queste condizioni.
Nelle narrazioni ottimistiche sulla globalizzazione e i flussi, mercati liberi e migrazioni vanno insieme. Anche se, al contrario, i muri fisici e legali si sono moltiplicati, aggiornando quello che è sempre stato un capitalismo delle differenze. Un capitalismo che, accanto alla caccia alle streghe e all’«accumulazione originaria dei corpi» necessaria a naturalizzare la femminilizzazione della riproduzione sociale (Silvia Federici), ha fatto della discriminazione razziale un importante strumento di sviluppo. È servita nelle colonie a dividere razzialmente il lavoro per mansioni e forme di impiego (schiavistico, vincolato, a contratto).

È servito per dividere lavoratrici e lavoratori in patria. È servito ovunque per garantire privilegi differenziali con cui compensare paghe e condizioni di vita miserabili. Tutto ciò è stato possibile perché, nell’instabilità determinata dalla mobilità sociale moderna, il razzismo funge da dispositivo di costruzione identitaria. Come il meccanismo sessista, serve a eternare e spiegare dei rapporti sociali sancendo delle appartenenze e delle esclusioni irrimediabili.
Le politiche migratorie e il razzismo istituzionale servono a filtrare forza lavoro, a renderla ricattabile e, più in generale, a governare la società. Si può arrivare in Italia, illegalmente o legalmente, ma solo per i lavori meno garantiti. E, quando serve, si viene ricacciati indietro. E la condizione comunque è precaria. L’ascesa sociale è vietata. Nello spazio pubblico, il panico morale contro i pericoli rappresentati dai migranti e l’odio razziale sono legittimi contro l’«egemonia della sinistra culturale» e il politicamente corretto.

Il termine «capitalismo razziale» non indica un sistema in cui la «razza» viene sempre e comunque messa a valore, né intende spiegare il razzismo con la sola struttura economica. La categoria fu introdotta nel Sud Africa dell’apartheid per affermare che non necessariamente il capitalismo omogeneizzi le differenze e sia sempre universalista. Al contrario, può svilupparsi attraverso l’eterogeneità delle forme di estrazione del valore. Poi prese a circolare grazie a “Black Marxism”, l’opera di Cedric J. Robinson sul pensiero radicale nero e sul rapporto tra classe e ‘razza’ nella storia europea e statunitense. Sosteneva che il razzismo precedesse il capitalismo moderno ma che, a sua volta, questo se ne sia servito per affermarsi su scala globale. Oggi, dopo Black Lives Matter, serve a denunciare la persistenza della discriminazione razziale nell’accesso alle risorse materiali e simboliche e la violenza delle istituzioni repressive. Se ne parla anche in relazione alle disuguaglianze postcoloniali, riprodotte in nuove forme e giustificate secondo supposte arretratezze culturali o cattive disposizioni comportamentali. Si usa infine rispetto alla cd. classe operaia bianca, beneficiaria – più o meno virtualmente – dell’orgoglio di non essere al fondo della società e di avere alcuni privilegi relativi – non certo assoluti.

Odiare chi sta sotto serve anche a evitare di lottare insieme contro chi sta sopra. Il governo Meloni forse lo sa. E per questo rilancia la crociata anti-gender. Perché una classe intersezionale, che costruisca una coalizione a partire dalle differenze che la compongono, potrebbe metterlo in difficoltà. E perché il diritto alla fuga praticato dai migranti incrina la comunità immaginata e il nazionalismo marziale dei postfascisti.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento