Vivek Murthy, capo del servizio pubblico di salute e portavoce del governo degli Stati Uniti, ha pubblicato recentemente un rapporto preoccupato sulla relazione tra l’uso dei social e la salute mentale dei giovani. Il rapporto parla di ampie indicazioni di un profondo rischio di danno per la mente degli adolescenti. Sottolinea che nella prima adolescenza, quando le identità e il senso dell’ autostima sono ancora in corso di formazione, lo sviluppo cerebrale è particolarmente influenzabile dalle pressioni sociali, dalle opinioni dei pari e dal confronto con loro. Urge le famiglie a porre limiti e i governanti a stabilire regole d’uso più dure.

Circa un mese fa Murphy aveva pubblicato un altro rapporto che evidenziava un aumento del 30% delle morti precoci nella popolazione americana a causa dell’isolamento sociale e affettivo.  L’uso improprio del digitale, una delle più importanti cause dell’isolamento nei nostri giorni, non è solo un problema di salute mentale per i giovani: è un problema di salute fisica per tutti.

La preoccupazione crescente nei confronti degli “effetti collaterali” del digitale, la cui potenza rivoluzionaria, capace di aprire nuove strade alla comunicazione umana e nuove insospettabili forme di socialità, è stata decantata per anni, potrebbe avere lo stesso destino della preoccupazione per i disastri ambientali: sfociare nel nulla.

Gli interessi che spingono per la sua espansione incontrollata sono fortissimi. Enormi investimenti: un mercato imponente il cui cedimento rischierebbe di trascinare con sé l’intera economia mondiale. Possibilità inimmaginabili di controllo dell’informazione, della società e della vita privata di tutti. Realtà artificiali che sempre più alienano le menti, offrendo loro l’inganno tanto catastrofico quanto persuadente che ognuno può costruirsi l’identità e l’ambiente di vita che vuole.

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Un assetto paranoico-depressivo della società, di cui la digitalizzazione dell’esperienza è una potente forza promotrice, che fondato su meccanismi di eccitazione antidepressiva e di scarica delle tensioni persecutorie, trova nella violenza e nell’omologazione compattante del pensiero regnanti nei social il suo principale sostegno e la più efficace fonte di riproduzione.

L’inerzia in cui un mondo che ha smarrito il suo futuro ci spinge con costanza trova nella vita in rete un alleato formidabile per espandersi nella sua forma più mistificante e insidiosa: l’immobilità performante. La spinta che sostiene l’invasione del digitale in ogni spazio intimo della nostra vita, pompata dalla “comodità” e dalla “funzionalità”, la necessità di risparmio di fatica, tempo e denaro, che instancabilmente produce disoccupazione e miseria emotiva, è potente. Pensare che si possa contenerla con le misure timide proposte da Murphy (tra cui un “piano media” in ogni famiglia) è ingenuo.

Che la digitalizzazione della vita avrebbe prodotto sconquassi psicologici e fisici era del tutto prevedibile. Nessuno di noi è rimasto illeso. La sua esaltazione durante la pandemia è stato un atto altamente irresponsabile. Per i bambini e gli adolescenti i danni sono drammatici perché sono in fase di sviluppo, di transizione, e la costruzione di legami affettivi significativi, solidali tra di loro è necessaria per il gioco di sperimentazione con cui definiscono progressivamente la loro posizione nel mondo.

Il digitale può sostenere la comunicazione tra le nostre aree di esperienza condivisa, ma non le può produrre. Per limitarlo nel suo ruolo di strumento logistico, la definizione legale della sua limitazione e le regole del suo buon uso, non sono sufficienti.

L’unico vero rimedio e l’investimento forte degli spazi conviviali culturali: i luoghi dove i nostri sguardi e i nostri respiri si incontrano e dove il piacere e il sapere sono amanti. Bisogna ridisegnare e far rivivere l’assetto “urbanistico” della Polis, nemico naturale degli spazi virtuali.