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Il destino navale del neozar, dal Kursk all’incrociatore Moskva

Il destino navale del neozar, dal Kursk all’incrociatore MoskvaNave ammiraglia della flotta russa, affondata nel Mar Nero – Ap

Battaglia Potere e marina russa, dopo l'affondamento della nave ammiraglia

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 16 aprile 2022

L’affondamento dell’incrociatore Moskva è, per il momento, l’ultima pagina del lungo e tormentato libro dei rapporti tra il potere marittimo e la carriera di Putin. Diventato presidente nel 2000 grazie a una guerra tra i monti della Cecenia senza alcun coté navale, il neoeletto Vladimir Vladimirovic si era ritrovato a dover fronteggiare quasi subito un disastro come l’affondamento del sottomarino Kursk, di cui si ricordano la straziante fine dei sopravvissuti, le punture di calmante fatte in diretta tv ai parenti delle vittime, e quel foro di entrata di dimensioni compatibili con un siluro che ha sempre suscitato un’espressione furbetta e misteriosa tra gli «addetti ai lavori».

Ce n’era abbastanza per scommettere che Putin avrebbe riservato le briciole alla flotta, tenendosi lontano da una potenziale fonte di guai. Al contrario, il sempre sorprendente capo del Cremlino si è intestato, tra le altre imprese erculee che hanno costellato la sua carriera, anche la rinascita del potere marittimo russo; non senza contraddizioni, come vedremo.

Putin, infatti, ha affrontato i problemi navali con quella miscela di cinico realismo e grandeur da villaggio Potëmkin che ha caratterizzato da sempre ogni sua azione. Mentre i grandi vascelli costruiti ai tempi dell’Urss facevano da sfondo alle sue visite di Stato – col Moskva ci andò in Costa smeralda da Berlusconi nell’estate 2003 . – e le notti trascorse in immersione a bordo dei sottomarini nucleari consolidavano la sua immagine da macho. La foto di Putin con la tel’njaška, la mitica maglia a strisce orizzontali dei marinai russi, finiva addirittura sulle t-shirt che campeggiavano sui profili social di certi suoi (ex) amici occidentali. Allo stesso tempo, però, il presidente lesinava i fondi alla cantieristica e lasciava che a guidare questo settore strategico fossero ceffi avidi e incompetenti, mentre le basi navali all’estero languivano o venivano chiuse, e i grandi progetti di incrociatori e portaerei non andavano mai oltre lo stadio del modellino da scrivania.

Kursk, Vikramaditya, Lošarik, Kuznecov, Pietro il Grande, Nachimov, Cam Rahn, Lider. Nomi che ogni esperto di affari navali conosce, e che sono altrettante stazioni del calvario navale russo, l’ultima, in ordine di tempo, è la triste fine dell’incrociatore Moskva, sui cui dettagli, al momento attuale, è impossibile dilungarsi. Certo, la presenza in zona di un aereo Usa da guerra navale e le voci di perdite a bordo sembrerebbero confermare l’ipotesi dell’attacco missilistico ucraino con «aiutino» Nato, ma tant’è…

Eppure, nonostante tutto, la marina russa godeva di buona stampa tra i bene informati, grazie alla potenza sottomarina, certo, ma grazie anche alle «umili» corvette classe Bujan M, piccole navi da 1.000 tonnellate che, durante la guerra in Siria, hanno rivoluzionato gli affari navali, dimostrando che vascelli piccoli e poco costosi, grazie ad armi eccezionali come i missili da crociera di ultima generazione, possono avere un’impronta strategica pari a quella di navi ben più grandi, e ben più vulnerabili come si è visto. La Russia, dunque, è in possesso di capacità di superficie di prim’ordine nelle cosiddette «acque brune», quelle prossime alle coste, e il disastro del Moskva non cambia questo fatto.

Ma la perdita di questa grande unità ammiraglia e l’incapacità della cantieristica russa di rimpiazzarla, tarpano le ali alle ambizioni oceaniche di Putin. Il sistematico sotto-finanziamento della cantieristica, la chiusura delle basi all’estero, l’incompetenza e l’avidità dei famigli messi a dirigere le costruzioni navali e a gestire le forniture e la manutenzione della flotta sono mali incurabili nel breve periodo. Mali tipici, peraltro, di chi applica i principi delle business school a settori, quelli del complesso militare-industriale, a cui gli stessi Stati uniti riservano la più ortodossa economia pianificata di Stato.

L’«operazione speciale», la guerra in altri termini, sta mettendo drammaticamente a nudo il lato velleitario delle aspirazioni da grande potenza della Russia che in economia si comporta da liberale rigorosa. A tenere in scacco le forze armate russe in cielo, in terra e in mare non sono i generali ucraini, e nemmeno quelli della Nato. Il vero nemico è il «generale von Mises» – il padre del neoliberalismo occidentale – che, dalle parti della Banca di Russia e del ministero della Finanze, gode di incontrastata supremazia culturale. È in quelle stanze, molto più che nelle acciaierie in rovina di Mariupol o tra i flutti del Mar nero, che si decide il destino dell’avventura russa in Ucraina. E quello personale di Putin.

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