La commissione sanità del Senato ha concluso l’esame e dato parere favorevole allo “Schema di decreto legislativo recante politiche in favore delle persone anziane”, il cosiddetto “Decreto anziani”. I commenti delle parti sociali consultate sono stati spesso critici su singoli aspetti del decreto, ma non ne hanno contestato l’impianto generale che non sembra tenere conto della radicalità e della rapidità della transizione demografica in corso.

Secondo le stime dell’Istat, infatti, la popolazione di età superiore a 65 anni, oggi pari a circa il 24% del totale, rappresenterebbe nel 2050 il 34,5% della popolazione italiana in coincidenza con una progressiva riduzione nel numero degli abitanti che passerebbero dai 59 milioni registrati al 1° gennaio 2022 ai 54,4 del 2050, ai 45,8 del 2080. Questo andamento dipende dalla maggiore longevità e dalla riduzione nel numero dei nati e non è adeguatamente compensato da un saldo migratorio che, per quanto attivo, si sta rivelando largamente insufficiente.

Il decreto governativo invece di affrontare consapevolmente il problema di una società che invecchia, sceglie di considerare gli anziani come singoli ai quali riconoscere, in ragione dell’età, specifici benefici senza comprendere che le soglie di età sono sempre meno utili a spiegare il disagio e ad intervenire per attenuarlo e che la radice dell’esclusione è aggravata dall’età ma risiede nelle disuguaglianza e nella frammentazione sociale.

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In una società diseguale che esclude la marginalità, qualunque ne sia l’origine, l’intervento pubblico non può consistere nella semplice offerta di servizi dedicati a specifiche fasce anagrafiche o categorie di domanda, ma deve ricostruire comunità vive e solidali nelle quali la stessa persona, anziana o meno anziana, possa essere di volta in volta destinataria o protagonista di attività di sostegno e di interventi.

La prima parte del decreto, dedicata agli anziani autosufficienti, propone invece un modello fortemente burocratizzato e assurdamente centralizzato per la fornitura di servizi ai “vecchi”, anzi ai vecchi indigenti, insomma una legge dei poveri caratterizzata da una grande attenzione ai fornitori e destinata ad una platea molto selezionata, che si vuole tenere occupata, che si vuole mandare in vacanza, che deve essere opportunamente classificata con strumenti scientifici, dotata di animali da compagnia, avviata all’attività sportiva, accudita da volontari solerti e addestrata all’uso del computer. Tutte attività legittime, magari utili, che fanno però drammaticamente pensare ad una dimensione allargata dell’ospizio.

Questo caritatevole buonismo sembrerebbe recedere quando si introduce il tema della coabitazione solidale, ma una rapida lettura cancella prontamente questa impressione. «Le forme di coabitazione di cui al comma 1 – recita il decreto – sono realizzate nell’ambito di case, case- famiglia, gruppi famiglia, gruppi appartamento e condomini solidali, aperti ai familiari, ai volontari, ai prestatori esterni di servizi sanitari, sociali e sociosanitari integrativi, nonché ad iniziative e attività degli enti del terzo settore di cui al decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117.». Anche l’idea della coabitazione solidale conferma dunque la pratica di un ospizio diffuso dove non emerge l’esigenza di conservare e proteggere il contesto sociale in cui le persone vivono o quella di garantire la stabilità residenziale, soprattutto in quei centri storici dove l’aumento dei valori immobiliari contribuisce all’espulsione delle fasce sociali più disagiate.

Ad una comunità attiva che costruisca relazioni solidali si preferisce un’idea del benessere come offerta sparsa di servizi e prestazioni. Si comprende, in questa prospettiva, la mancanza nel decreto di criteri di valutazione sul suo impatto sociale, su come si possa misurare l’inclusione o la partecipazione, su come si garantisca l’autonomia, se sia un obiettivo la maggiore uguaglianza nel godimento dei diritti.

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La seconda parte del decreto, dedicata alla categoria degli anziani non autosufficienti, ritaglia un destinatario più circoscritto, ma segue, con interventi diversi, la stessa logica. Non si tiene conto, in un approccio classificatorio, che la perdita dell’autosufficienza non è una categoria ma un processo e che interromperlo con una soglia di capacità funzionali al di sotto delle quali scatta la definizione di “non-autosufficienza” è utile dal punto di vista statistico ma dannoso da quello delle politiche di tutela e di cura perché l’obiettivo di un sistema di welfare non può interpretare l’autonomia come una variabile dicotomica e perché gli interventi più impegnativi ed efficaci sono quelli che rallentano la perdita dell’autonomia e non quelli che ne prendono atto.

Soprattutto si ripropone, però, un approccio individualizzato alla cura che tende a sottovalutare la componente sociale della autonomia, e quindi il ruolo della comunità nell’accoglienza e nell’inclusione, e che sottolinea la standardizzazione dei criteri per la concessione dei benefici.

In un disegno complessivo che prova ricollegare i fili dell’esistente senza superarne i limiti rimane inoltre una straordinaria pluralità di soggetti attuativi con forme deboli di coordinamento e con l’attribuzione di compiti di supervisione e di programmazione agli Ambiti Territoriali Sociali, che oggi costituiscono entità estremamente disomogenee e spesso assai poco strutturate, invece di orientarsi verso un’unificazione strutturale e gestionale tra il sistema sanitario e quello dell’assistenza sociale. Il decreto, debole nell’immaginare le risposte ad una società che invecchia, sancisce infine anche un sostanziale blocco al finanziamento dei servizi sociali perché non prevede in nessuna area di intervento un incremento di spesa pubblica. Insomma è un decreto sbagliato, difficile da salvare e, purtroppo, anche da emendare.