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Il declino di Facebook quotato al casinò capitalism

Il declino di Facebook quotato al casinò capitalism

Internet La società di Mark Zuckeberg brucia a Wall Street 118 miliardi di dollari per poca innovazione, privacy degli utenti ai minimi termini. E un algoritmo che privilegia i potentati economici

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 28 luglio 2018

Tempi duri per Facebook, al punto che c’è chi parla dell’inizio del declino del social network, che in una manciata di ore ha visto le sue azioni crollare a Wall Street. L’accusa è quella di essere ormai una società poco innovativa.

La società di Mark Zuckerberg è accusata inoltre di non tutelare la privacy degli utenti, come è emerso nell’affaire di Cambridge Analytica. E sempre più rari sono le presentazioni di prodotti innovativi, fattore decisivo per reggere la feroce competizione in Rete e per fronteggiare i possibili nuovi player, in particolare quelli cinesi. E dalla Cina Facebook ha recentemente ricevuto un secco rifiuto alla richiesta di poter operare nuovamente nel paese, dopo che se ne era dovuto andare per aver rifiutato di partecipare alla campagna di censura di Internet.

Sembrano passati secoli da quando Mark Zuckerberg chiamava Barack Obama per nome, da quando annunciava la costruzione di una comunità globale di uomini e donne rispettosi delle diversità altrui. O di quando veniva indicato come il possibile candidato liberal alla presidenza degli Stati Uniti da contrapporre al populista Donald Trump.

Invece che secoli sono passati solo due anni, al termine dei quali Zuckerberg è salito sul banco degli imputati ed è stato interrogato dal Congresso Usa e dal parlamento europeo dopo l’accusa al social network di aver ceduto dati a una società che li ha usati per manipolare l’opinione pubblica. Poi è venuto il tempo di rendere pubblici i dati non brillanti del secondo trimestre 2018. La reazione non si è fatta attendere. Facebook ha infatti perso a Wall Street 118 miliardi in una manciata di ore. Una perdita enorme, che il social network ha potuto gestire vista la stratosferica quotazione del titolo in Borsa (fino a giovedì oltre 660 miliardi di dollari).

È probabile che Mark Zuckerberg decida di mettere le mani al suo portafoglio per rastrellare azioni e così tamponare le perdite di valore del titolo. Lo ha già fatto più volte in passato, a partire dal 2012 quando il social network debuttò a Wall Street e le azioni crollarono rispetto il prezzo stabilito per il debutto nel casinò capitalism. L’intervento diretto di Zuckerberg ha finora funzionato, nel senso che l’iniezione di dollari è stato interpretato come un gesto di stabilità, riconquistando così la fiducia agli investitori.

Rimane però un mistero il perché le azioni del social network hanno perso quasi il quindici per cento del loro valore. Certo il bilancio trimestrale non era splendido, soprattutto i dati che decretavano l’uscita di un bel po’ di milioni di utenti da Facebook. Ma gli altri dati (introiti pubblicitari, investimenti, ricavi dai Big data) non danno certo l’idea di una impresa in difficoltà. Certo in leggero calo nel fatturato, ma niente che giustifichi la vendita così massiccia di azioni. E neppure la causa può essere individuata nei guai che Facebook ha con l’Unione europea. Google ad esempio è stata multata dalla Ue, ma il suo bilancio trimestrale ha visto un aumento considerevole delle entrate del motore di ricerca, mentre il titolo azionario non è stato certo penalizzato.

Non c’è dunque una sola ragione del crollo di Facebook. Da una parte è emerso il fatto che la spregiudicatezza della società di Zuckerberg nel commercio dei Big Data non è apprezzata e viene per questo penalizzata. Zuckerberg ha annunciato che ci sarà un giro di vite nella liste delle società acquirenti dei dati, ma l’annuncio non è servito a diradare le nuvole sulla correttezza di Facebook. C’è poi il cambiamento di Edge Rank, l’algoritmo usato dal social network. Per molti utenti radicalizza quella tendenza alla ostruzione di tante, ristrette «comunità di simili» incomunicanti l’una con l’altra, con buona pace dello sbandierato progetto di costruzione di una comunità globale che ha tenuto banco per due anni la discussione sull’evoluzione dell’opinione pubblica e della trasformazione della Rete in un media interattivo e libero dai condizionamenti dei gruppi editoriali. Anzi, quel che emerge è che la nuova versione dell’algoritmo riduce la visibilità di articoli e servizi televisivi messi on line, elemento che segnala il fatto che Facebook ha fatto proprie le richieste proprio dei grandi gruppi editoriali di scoraggiare la pubblicazioni in Rete dei «loro» contenuti.

Infine, c’è la mancata chiarezza di Facebook sull’adesione o meno al progetto di Donald Trump di dare vita a una Internet a due velocità, dopo la cancellazione negli Stati Uniti della net-neutrality.

Facebook ha avuto un comportamento ambivalente. Inizialmente ha detto di no al progetto di Trump. In un secondo momento lo stesso Zuckerberg ha però dichiarato di essere disponibile a discutere un eventuale progetto di Trump di far pagare per alcuni servizi di qualità, mantenendo gratuiti per altri servizi a bassa qualità. Un atteggiamento che non è piaciuto agli utenti della Rete.

Tutti fattori che attestano le difficoltà di Facebook. È presto però dare per spacciato il social network, ma non è campata per aria l’ipotesi di dell’inizio di un suo declino. Da anni non emergono decisioni che attestano il dinamismo del social network, ma solo la conferma di un business model che continua sì a far cassa, ma che non ha più la capacità di esercitare una leadership nel capitalismo delle piattaforme. Facebook vale sempre 551 miliardi di dollari, ma è una cifra che non è tuttavia proporzionale alla capacità di continuare ad esercitare egemonia dentro e fuori la Rete.

 

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