Inflazione alta, si alzano i tassi. È quello che stanno facendo le principali banche centrali del pianeta. Non è così, invece, in Turchia. Qui l’inflazione è al 79,6%, ma la banca centrale (Cbrt) ha deciso di abbassare il tasso guida dal 14 al 13%.
Erdogan pensa che siano gli alti tassi a provocare fiammate inflazionistiche. Non il contrario. Una tesi mutuata dagli epigoni dell’economista americano Irving Fisher. I quali, a supporto della loro posizione, portano spesso ad esempio l’inefficacia, contro la deflazione, delle politiche monetarie espansive seguite al crack del 2007-2008. E non hanno tutti i torti.

Così come nel decennio scorso il denaro a prezzi di saldo non ha fatto centrare l’obiettivo dell’inflazione al 2%, allo stesso modo potremmo trovarci adesso con l’economia in recessione senza incidere sui prezzi. Il fatto che le cure «monetariste» non abbiano sempre funzionato in questi anni, né in Europa né negli Stati Uniti, non significa però che Erdogan abbia ragione. Basta dare un’occhiata alla serie storica dei tassi d’inflazione in Turchia. In cinque anni si è passati dall’8 all’80%.

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La banca centrale dice che le cause vanno cercate negli «effetti ritardati e indiretti dell’aumento dei costi energetici derivanti dagli sviluppi geopolitici». C’è del vero in queste parole. Ma gli shock di cui si parla, da soli, non avrebbero potuto far schizzare l’inflazione ai livelli attuali, peraltro altissimi già prima del conflitto russo-ucraino. I grafici, poi, parlano chiaro: la corsa sfrenata dei prezzi è partita alla fine dell’anno scorso, in coincidenza con le scelte della banca centrale.

Intanto, la lira turca ha perso in un anno il 44% rispetto al dollaro. E non sembra sufficiente l’aumento di riserve in valuta estera per sostenerne il corso (a luglio la Russia ha versato 15 miliardi di dollari per una centrale nucleare). Alcuni osservatori parlano di «uso opportunistico» di certe teorie monetarie da parte di Erdogan. Una moneta debole favorisce pur sempre le esportazioni e il turismo. Ma anche qui i conti non tornano. Nei primi due mesi dell’anno, le esportazioni sono cresciute effettivamente del 21,4% rispetto al 2021. Ma la lira svalutata ha fatto crescere anche il costo delle importazioni. Col risultato che il conto corrente, a maggio, ha fatto registrare un deficit di 27,5 miliardi di dollari.

In compenso il Pil è cresciuto del 7,3% nel primo trimestre del 2022. Ma adesso ci sono segnali di rallentamento. E l’anno prossimo si vota. Meglio l’inflazione che l’austerità, allora. Ma per il popolo è come stare in padella o sulla brace.