Di cinema italiano al Festival di Cannes non ce ne è molto, non così tanto almeno rispetto alle attese e alle «promesse» dei tanti film realizzati in questi mesi di pandemia. Perché se le sale hanno sofferto – anzi sono state travolte dalla chiusura «virale» e divorate dal progressivo affermarsi (e moltiplicarsi) delle piattaforme – la macchina cinema intesa come produzione e set è andata avanti, e persino come dicono gli addetta ai lavori, in modo proficuo del solito.
E dunque? Come mai allora la selezione ufficiale presenta solo un titolo, Tre piani, il nuovo film di Nanni Moretti, peraltro già annunciato nell’edizione del Festival 2020 poi cancellata dal Covid?
Proprio questa può essere una delle risposte: Frémaux – come si è detto più volte – ha tenuto ferma gran parte della selezione dell’anno passato, esclusi quei film annunciati con la «Cannes Label», ma questa richiesta di fedeltà, aspettare cioè il prossimo festival, significava anche l’impegno da parte sua di mantenerli nel programma e non abbandonarli una volta arrivati quelli nuovi. È chiaro che la situazione doveva essere molto affollata – in qualche modo lo ha suggerito lui stesso quando nella conferenza stampa di presentazione del programma ha detto che la «giuria non poteva vedere un numero troppo alto di film» – per non dire poi della composizione del programma giornaliero, già assai stracarico di slot.
Forse però nelle scelte delle produzioni-distribuzioni italiane ha anche pesato la nuova collocazione del festival a luglio, che non permette se non per pochi casi – come il film di Marco Bellocchio che uscirà in Italia in contemporanea alla presentazione a Cannes, il 15 luglio – una distribuzione; sappiamo che la stagione in Italia a differenza che in Francia, in estate è sospesa, e inoltre c’è molto vicina la Mostra di Venezia – obiettivo principe per tutti i film italiani nonostante le frequenti catastrofi in termini di risultati agli incassi con uscite che si sovrappongono una all’altra negli stessi giorni, o poco dopo, le proiezioni sul Lido.

NELL’INCERTEZZA di un orizzonte ancora traballante per il futuro di «ripartenza» e «riaperture» – si spera stabili – e nel contesto di cui si diceva Frémaux è rimasto con il Tre piani di Moretti, autore per eccellenza di Cannes (ha vinto la Palma d’oro nel 2001 con La stanza del figlio, all’altro suo grande beniamino, Paolo Sorrentino, sempre sulla Croisette stavolta ha dovuto rinunziare visto che il nuovo film, dato per certo al Lido, è targato Netflix), ispirato al romanzo omonimo di Eshkol Nevo (in Italia uscito per Neri Pozza) ambientato in una palazzina borghese a Tel Aviv, tra i cui appartamenti prende forma una complessa rete di relazioni umane. Il film – scritto da Moretti insieme a Federica Pontremoli e Valia Santella, con un cast pieno di attori del cinema italiano, da Margherita Buy a Riccardo Scamarcio, Anna Bonaiuto, Alba Rohrwacher, Adriano Giannini, lo stesso Moretti … – che si svolge invece in un condominio a Roma, è composto anch’esso da tre storie che si intrecciano in quello spazio ristretto facendosi metafora del mondo – uscirà nelle sale italiane il prossimo 23 settembre.
A questo si è aggiunto a sorpresa il nuovo film di Marco Bellocchio (uscita appunto il 15 luglio) e soprattutto la notizia che al magnifico regista di Piacenza sarà consegnata la Palma d’onore, riconoscimento giustissimo a un fare cinema che attraverso i decenni non ha mai smesso di interrogarsi e di mettere in discussione la propria forma e poetica a ogni nuovo passaggio, mai adagiato sulla propria poetica. Marx può aspettare Bellocchio lo racconta così: «Il 16 dicembre 2016 Letizia, Pier Giorgio, Maria Luisa, Alberto ed io, Marco, le sorelle e i fratelli Bellocchio superstiti ci riunimmo, con mogli, figli e nipoti al Circolo dell’Unione a Piacenza per festeggiare vari compleanni.
Io avevo organizzato il pranzo con l’idea di fare un film sulla mia famiglia, ma non avevo ancora le idee chiare. Non sapevo che cosa volevo esattamente fare. In realtà lo scopo era un altro: fare un film su Camillo, l’angelo, il protagonista di questa storia… Marx può aspettare parla della morte di Camillo, mio gemello, il 27 dicembre del 1968. Una storia totalmente autobiografica, ma che vuole essere «universale» (altrimenti che interesse potrebbe avere?) per almeno due motivi: una riflessione sul dolore dei sopravvissuti (eravamo abbastanza sani noi fratelli per sentire dolore?), ma soprattutto sulla volontà di nascondere la verità a nostra madre, convinti che altrimenti non avrebbe sopportato la tragedia. E perciò il teatro nella tragedia».

LA STORIA FAMIGLIARE è una «misura» nella quale Bellocchio riesce a trovare un equilibrio formale straordinario – basti pensare a Sorelle mai (2010), a partire da piccoli gesti, da abitudini quotidiane, da una prossimità che la distanza narrativa rende profondamente vera, e che si fa terremo di sentimenti collettivi e e riflessione sul senso delle immagini.
Nelle sezioni indipendenti, Quinzaine des Realisateurs e Semaine de la Critique, le proposte scommettono su generazioni di registi italiani nuove, su un cinema che spiazza i riferimenti alla tradizione di genere (commedia) componendo una cartografia del cinema italiano in cui si reinventano luoghi, riferimenti, figure letterarie ma soprattutto visualità e forme del racconto. Tracce, segnali, ma anche una continuità con quanto accade da tempo, quel tessuto da cui emergono le opere di registi come Alice Rohrwacher o Pietro Marcello. Che troviamo alla Quinzaine col film collettivo firmato anche da Francesco Munzi Futura, che seguendo la suggestione dei Comizi d’amore pasoliniani viaggia nell’Italia del prima e del dopo Covid per dare voce, tra nord e sud, ai pensieri dei ragazzi a partire dalla domanda: come immaginate il vostro futuro?
C’è poi il nuovo film di Jonas Carpignano, A Chiara, autore di talento e di pensiero, e la bella sorpresa dell’opera seconda di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, autori rivelati dal precedente Il Solengo divenuto un evento cinematografico internazionale con premi e passaggi in numerosi festival. Re Granchio ritorna nel paesaggio del film precedente, la Tuscia, dove ancora oggi i cacciatori più anziani ripetono la leggenda di Luciano, che nell’Ottocento si era ribellato al principe per proteggere la donna amata, e per questo era stato costretto a fuggire lontano, nella Terra del fuoco, dove sarà travolto dalla caccia all’oro.

LA SEMAINE – nell’ultima edizione di Charles Tesson, che dal prossimo anno passa la conduzione a Ava Cahen – ha scommesso sull’esordio di una giovane regista, Laura Samani: Piccolo Corpo è una storia al femminile ambientata all’inizio del Novecento. La figlia della giovane Laura è nata morta, la mamma perché non rimanga nel limbo come dice la tradizione cattolica, si mette in viaggio verso un luogo dove, si dice, i bimbi come lei possono respirare per quell’istante che ne permette la sepoltura.