Per molti anni Ramón ha lavorato in una fabbrichetta dove lo stipendio arrivava in buona parte fuori busta e gli straordinari sembravano non finire mai. Adesso, però, è diventato il guardiano di un colossale cartellone della Coca Cola, abitato da una smisurata lattina rossa in mano a una gigantessa spensierata. L’impresa che lo ha assunto («mezzo contratto» e pagamento in voucher), ha disseminato centinaia di cartelli simili lungo le strade che dalle città dell’America latina conducono agli aeroporti – o ad altre città, o al nulla – e vuole che qualcuno li sorvegli, per impedire il furto dei costosi sistemi di illuminazione.
Un compito che Ramón accetta volentieri, non appena si accorge che sulla piattaforma della struttura metallica si può costruire una casupola in cui vivere, al riparo di uno slogan che, piazzato in vista delle vicine case popolari, appare quasi insultante: «Condividi la felicità». E la felicità per lui si identifica con il silenzio e la solitudine che insegue sin da bambino, e che ha sacrificato prima all’ansia della madre e poi all’amore per Paulina, vivace scaffalista che nel supermercato dispone shampoo e saponi in forma di arcobaleni.

NON GLI CI VUOLE MOLTO per lasciare il suo modestissimo appartamento e traslocare, ed è con l’ immagine di moderno stilita, votato alla contemplazione del cielo e di un’oscurità in cui le luci sbocciano ogni sera, che si apre La casa sul cartello (pp.142, euro 15, traduzione di Marta Rota Núñez) romanzo di Maria José Ferrada appena uscito presso Edicola, piccola impresa editoriale che ha scelto di pubblicare soprattutto la ricca letteratura cilena di oggi. Ferrada, nata nel 1977 a Temuco, si distingue per la sua versatilità (ha scritto una quarantina di libri per bambini, ma anche testi per lettori adulti, come questo) e per una scrittura misurata e concisa, venata di ironia e concentrata in capitoli brevi, che non cede all’ansia di dire tutto e si affida a immagini nitide e brillanti, ad atmosfere che si fanno via via più suggestive, all’ evocazione di ambienti marginali esplorati senza paternalismo, dando conto di amarezze e ingiustizie quotidiane con una levità che non le attenua, ma le sottrae al registro di molti giovani autori latinoamericani, così uniformemente truculento da correre il rischio di trasformare la violenza in luogo comune.

SE NEL PRIMO ROMANZO di Ferrada – Kramp (Edicola 2018), definito «eccezionale» dal New York Times – la protagonista è una bambina che racconta con insolito acume il Cile post-dittatura, qui il narratore è Luìs, undici anni trascorsi ai confini di una città che non ha mai davvero accolto quanti sono arrivati fin lì da poverissime provincie, in cerca di lavoro o di semplice sopravvivenza, confinandoli a lungo in baracche provvisorie, impregnate dell’odore di fumo dei falò. L’odore della miseria più disperata, insomma, che la gente delle case popolari non riesce a dimenticare nemmeno adesso che se l’è lasciata alle spalle, anche perché nella vicinanze si sono accampati i Senza Casa, i cui fuochi rinnovano, insieme all’inaccettabile stravaganza di Ramón, esibita davanti agli occhi di tutti, la memoria di un passato irregolare e miserabile.

Luis, che insieme alla zia Paulina (madre putativa ben diversa da quella vera, isterica e manesca) si arrampica fino alla casetta di Ramón e ne è più che mai affascinato, con le sue rapide notazioni disegna una mappa della diffidenza e del rifiuto cresciuti sull’illusione di potersi reincarnare, un giorno, in consumatori rispettabili e felici; la piccola gente «perbene» delle palazzine è terrorizzata all’idea di perdere il poco che ha conquistato e appare pronta a rivoltarsi contro ogni forma di alterità, con una violenza giustificata dalle più assurde «voci che corrono».

FERRADA ritrae magistralmente il rapporto tra infanzia ed età adulta, la guerra tra povertà diverse che il capitalismo non si stanca di alimentare, e soprattutto sa ricreare con pochi tratti uno spazio fatto di esclusione, sfruttamento e precarietà che potrebbe appartenere a una qualsiasi metropoli contemporanea. La casa sul cartello si rivela così come un romanzo squisitamente politico, divertente e crudele insieme, che, grazie alla scelta della voce narrante (quella di un undicenne lucido, acuto e tolletante), si trasforma a poco a poco in una raffinata parabola dall’atmosfera vagamente onirica, fino a indicare a Ramón, Paulina e Luis, capaci di disobbedire e di sottrarsi alla tagliola del comune buon senso, una via di fuga, se non di salvezza.

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SCHEDA. Domani a Roma la «controfiera» di Esc

Domani a Roma, a ESC Atelier (via dei Volsci 159), si terrà «La notte bianca del racconto», a partire dalle 20. Arrivata alla sua terza edizione, quest’anno la maratona letteraria si configura come una «controfiera», perché le case editrici che parteciperanno a questo appuntamento (Racconti, effequ, Safarà, Rina, Pidgin, Tamu, Edicola) hanno scelto di non essere presenti alla fiera romana di «Più Libri Più Liberi». Come si legge nel comunicato stampa: «Forse dovremmo dire: Meno Libri, Più Attenzione – meno guerre di settore, più rete». Aver scelto Esc come luogo di incontro ha un senso politico preciso di posizionamento, in un momento in cui rischia di chiudere a causa di una ingiunzione comunale che prevedrebbe un pagamento di 220mila euro per gli affitti ricalcolati a prezzo di mercato.