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Il «ciclo» sudamericano in trincea

Il «ciclo» sudamericano in trinceaManaus, settembre 2008, da sinistra, i presidenti: Hugo Chavez del Venezuela, Evo Morales della Bolivia, Inacio Lula da Silva del Brasile, Rafael Correa dell’Ecuador – foto Ap

Latinamerica Con l’arresto di Lula finisce in America latina la stagione progressista? No, e mentre le critiche all’«estrattivismo» segnano il passo, la novità che «aiuta» la resistenza è la nuova aggressività Usa

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 29 aprile 2018

L’arresto di Lula, ultimo atto del golpe istituzionale in Brasile iniziato con la destituzione di Dilma Rousseff, segna la fine del «ciclo progressista» in America Latina?

È QUANTO asseriscono una serie di intellettuali e accademici latinoamericani, anche di sinistra, in riferimento al nuovo ciclo politico-ideologico che iniziò a farsi strada nel subcontinente all’inizio del 2000 e che, favorito da una serie di circostanze nel terreno internazionale – Stati uniti ed Europa «impegnate» in Afghanistan e Medio Oriente – che si combinavano virtuosamente con processi endogeni nella regione – accumulazione delle lotte di massa, nuove strategie antimperialiste maturate nel Foro di San Paolo, aumento dei prezzi delle commodities latinoamericane – era sfociato nella formazione di governi popolari o progressisti in America latina e nel Caribe.

IN CONTROTENDENZA rispetto a quanto invece avveniva in Europa, sia Fidel Castro sia Hugo Chávez – la cui vittoria elettorale in Venezuela nel 1999, seguita da quella di Lula in Brasile nel 2002, aveva davverp segnato l’inizio del «ciclo progressista» – ribadivano l’attualità del socialismo.

NEL 2011 UNDICI nazioni del subcontinente – Argentina, Brasile Paraguay, Venezuela, Uruguay, Ecuador, Nicaragua, El Salvador, Repubblica dominicana e Cuba (alcuni autori inseriscono anche il Perù di Hollanta Humala)- erano governate da leader di formazioni politiche partecipanti al Foro di San Paolo, creato proprio da Lula e da Fidel Castro alla fine degli anni Novanta del secolo scorso per delineare nuove politiche per combattere il neoliberismo e tracciare una nuova linea di conquista del potere mediante elezioni.

OGGI restano sei le nazioni latinoamericane rette da governi progressisti, tutte in vari gradi colpite dalla crisi economica e dalla nuova aggressiva politica imperiale nordamericana con l’avvento alla Casa bianca di Donald Trump, aggravata in due paesi dello «zoccolo duro bolivariano», Ecuador e Venezuela, nel primo a causa di una lotta interna allo schieramento progressista, tra la linea del nuovo presidente Lenin Moreno e quella del predecessore Rafael Correa.

PARTICOLARMENTE grave è la crisi economico-politico-sociale del Venezuela del presidente Nicolás Maduro, da più di tre anni oggetto di una feroce guerra politico-economica da parte degli Usa che ha portato il paese sull’orlo della guerra civile

Ed è da almeno tre anni che intellettuali e accademici di sinistra scrivono sulla «fine del «ciclo progressista» con toni anche molto duri, da Raúl Zibechi, che sostiene che «il progressismo non ha costituito «un avanzamento» per l’America latina, a Mariela Svampa che scrive che il ciclo progressista è stato costruito su «un populismo ad alta intensità», con evidente riferimento al Socialismo del XXI secolo teorizzato da Hugo Chávez e alle esperienze del Buen Vivir costruite in Ecuador da Rafael Correa e in parte nella Bolivia plurinazionale del presidente Evo Morales.

SI TRATTA SPESSO di analisi meccanicistiche, il cui centro però – la critica alla continuità delle politiche estrattive praticata anche nello zoccolo duro bolivariano – è una realtà innegabile. Lo schema di ragionamento di questi critici di sinistra – come lo sintetizzano il basco Katu Arkonada e l’argentina Paula Klacko – è il seguente: 1) è operante nel subcontinente un’economia estrattivista; 2) c’è stato un boom delle commodities che ha generato una redistribuzione parziale (a favore delle classi popolari) degli introiti generati dall’altro prezzo delle materie prime (beni naturali); 3) è arrivata la crisi del 2007-2008 e sono scesi i prezzi e diminuite le esportazioni/importazioni; 4) non si possono mantenere i precedenti tassi di ridistribuzione e dunque; 5) termina il ciclo progressista.

I teorici «progres» analizzano correttamente i problemi dell’economia estrattivista ma non offrono un’alternativa che possa aiutare efficacemente i governo progressiti. Se si fa riferimento al guru del «postestrattivismo», Eduardo Gudynas, si evince che, per mettere fine all’«estrattivismo depredatore», propone una transizione all’«estrattivismo sensato», per poi passare «all’estrattivismo indispensabile». Dunque, pare di capire che il rimedio per uscire dalle politche estrattive è costituito da un controllo delle politiche estrattive.

MA AL DI LÀ del dibattito sul modello di sviluppo in America latina – come ottenere un equilibrio tra il diritto a «crescere» per continuare a combattere fame e povertà e rispettare i diritti di Madre Terra – l’attuale crisi dei governi progressisti, secondo altri intellettuali tra i quali il brasiliano Frei Betto e il vicepresidente boliviano Álvaro García Linera – è dovuta al fatto che la maggioranza dei governi progressisti ha attuato sì politiche per favorire l’inclusione economica (redistribuzione delle ricchezza), ma senza accompagnarla con una polititicizzazione sociale.

Fatto che secondo l’argentino Attilio Borón ha portato «a una smobilitazione del blocco sociale che era stato alla base del processo di democratizzazione nel subcontinente».

Questa situazione è anche conseguenza dell’incapacità dei movimenti progressisti di contrastare l’egemonia neoliberale nel campo culturale. La riduzione della povertà e della diseguaglianza – come in Brasile – ha permesso di democratizzare il consumo e di generare in milioni di persone – in Brasile in particolare una giovane classe media che costituirebbe la metà della popolazione- un desiderio di consumo che non ha avuto alternative oltre la democratizzazione nell’accesso ai centri commerciali. In sostanza, questa è la tesi di Frei Betto, vi è stata una redistribuzione degli ingressi senza educazione politica o formazione ideologica critica al capitalismo.

QUESTA SORTA di lumpen borghesia intellettuale è stata la forza di complemento dei massmedia privati che in vari paesi hanno sostituito le formazioni di destra come funzione di ariete contro i governi progressisti, costruendo matrici di opinione che ruotano su corruzione, narcotraffico, insicurezza dei cittadini, incapacità del governo come temi centrali. Borón sostiene che la borghesia imperiale e i suoi alleati «hanno creato una sorta di «Piano Cóndor» dell’informazione per far sparire – desaparecer – la verità». E per sostenere una serie di golpe, blandi o meno, – in Paraguay, Honduras, Brasile – e una vera e propria guerra contro Maduro, e favorire così la vittoria delle destre in Argentina e Cile.

SE È INDUBBIO che il ciclo progressista è in crisi è prematuro decretarne le esequie (Aronada-Klachco) perché, nonostante le sconfitte politiche in Argentina (Mauricio Macri ,2015) e Cile (Sebastián Piñera, 2018) che segnano un indubbio pericolo di riflussso oltre ai vari golpes suaves in Brasile, Paraguay Honduras, non sono caduti i governi popolari del nucleo duro del cambiamento d’epoca progressista: Bolivia, Ecuador, Venezuela.

DI RESISTENZA si parla soprattutto in riferimento al caso del Venezuela bolivariano oggetto da anni di una guerra economico-politica da parte di Washington che l’attuale presidente Trump e la sua squadra di falchi – Pompeo e Bolton – sembrano intenzionati a portare alle estreme conseguenze (fino a un intervento militare umanitario?) con l’appoggio delle destre latinoamericane (Colombia e Brasile in primis) e internazionali.

PARADOSSALMENTE proprio l’aggressività della nuova amministrazione statunitense di Donald Trump può aiutare a agglutinare una linea di resistenza anche se in una «trincea» meno avanzata di quella bolivariana.

Le minacce di dazi, il muro e la guardia nazionale al confine col Messico, la mano dura nell’espulsione dei latinos hanno indotto alcuni governi conservatori ad appoggiare, diciamo ideologicamente, Trump, ma a cercare anche vie alternative – o complementari – alla dipendenza con il Nord.

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