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Il cancro non è più una malattia dei ricchi

Il cancro non è più una malattia dei ricchi

Medicina Dieci anni dopo l’appello «Stop Cancer Now», il Forum mondiale di oncologia riflette sui legami tra tumore e disuguaglianze sociali e di genere. Il 70% delle vittime vive nei Paesi a basso reddito, ma al sud del mondo vanno solo il 5% degli investimenti

Pubblicato circa un anno faEdizione del 1 ottobre 2023

Da oltre un secolo fricchettoni di ogni risma hanno eletto a proprio rifugio il Monte Verità, la collina boscosa che sovrasta Ascona sulla sponda ticinese del lago Maggiore. A metà tra il sanatorio e il centro sociale, ci salivano anarchici e dadaisti, Hermann Hesse e Thomas Mann, Bakunin e Kropotkin, e ovviamente Rudolf Steiner. Jung ci portava i suoi accoliti e ora anche gli oncologi hanno deciso di incontrarsi qui per una seduta di autocoscienza sotto la guida di Franco Cavalli. Medico e accademico di fama internazionale, molto vicino a Umberto Veronesi, Cavalli è anche uno storico esponente della sinistra radicale svizzera. Non è un ossimoro: per dodici anni parlamentare a Berna, qualche anno fa propose di nazionalizzare i colossi farmaceutici svizzeri Roche e Novartis. Quella volta lo seguirono in pochi. Ma nessun esperto di cancro rifiuta l’invito al Forum mondiale di oncologia (Wof), l’incontro annuale che Cavalli organizza in Ticino dal 2012. Dopo l’interruzione dovuta alla pandemia, il miracolo si è ripetuto nell’ultimo weekend di settembre.

L’appuntamento è meno mondano dei congressi pieni di sponsor, gadget e gentili inviti ad aumentare le prescrizioni di questo o quel farmaco. Ma proprio per questo è ritenuto imprescindibile: la corte di Cavalli rappresenta la parte più sana dell’oncologia mondiale, quella consapevole che la lotta contro il cancro – nonostante i frequenti annunci rivolti agli azionisti più che ai pazienti – è tutt’altro che vinta. Dalla prima edizione del forum nacque l’appello «Stop Cancer Now» del 2013, sottoscritto da. Il 2023 è l’anno del bilancio.

IL DECENNIO TRASCORSO ha demolito il luogo comune secondo cui il cancro sarebbe una malattia dei ricchi. Quasi la metà dei casi si possono prevenire perché sono legati a fumo, alcool, obesità e alla sedentarietà, fattori che associamo soprattutto all’occidente benestante e molleggiato. Ma stili di vita deteriori e fattori di rischio ora riguardano soprattutto le classi sociali più povere. Ad esempio, mentre l’incidenza dei tumori legati al tabacco cala in Europa e Nordamerica, cresce in Asia e Africa. «L’aspettativa di vita di un fumatore è dodici anni inferiore rispetto a quella di un non fumatore» spiegato Prabhat Jha dell’università di Toronto. «Smettere di fumare permette di recuperare il 90% di questi anni perduti. Oggi sappiamo che una strategia efficace per abbattere il consumo di sigarette consiste nel raddoppiare i prezzo del pacchetto. Ma pochi governi vogliono mettere in atto queste politiche». Perciò la curva dei morti di tumore al polmone continua a crescere nei Paesi poveri, mentre in quelli ricchi si muore meno di prima.

LA DISUGUAGLIANZA non riguarda solo il fumo. «Il 70% delle morti di tumore oggi riguarda i Paesi a reddito medio-basso ma a questi Paesi è destinato appena il 5% dell’investimento globale nella lotta contro il cancro» spiega la chirurga kenyana Miriam Mutebi. Mutebi dirige una rete pan-africana di oncologi e non fa sconti al colonialismo che ancora permea la pur benintenzionata narrazione sanitaria. «Dovremmo smetterla di parlare dell’Africa come se si trattasse di un unico Stato: sono 54 nazioni, con grandi variazioni tra l’una e l’altra e al loro interno. Impossibile lottare contro il cancro senza tenere conto dei vari contesti». Il divario è allargato dalla fragilità dei sistemi sanitari e a farne le spese sono soprattutto le donne. Nei paesi poveri è difficile immaginare programmi di screening contro il tumore al seno, o vaccinazioni di massa contro il papillomavirus. Colpa della povertà, ma anche di una medicina progettata soprattutto per i ricchi: in molti Paesi i filantropi portano gli strumenti per effettuare mammografie nonostante manchi il personale in grado di usarli, invece di formare medici e pazienti in grado di dar vita a campagne di diagnosi precoce meno tecnologiche ma altrettanto efficaci. Analogamente, il cancro alla cervice oggi colpisce soprattutto nei paesi a basso reddito, nonostante esistano vaccini efficaci ma sottoutilizzati.

EPPURE, ANCORA OGGI, si ritiene che «l’Imperatore del Male» – la definizione è di Siddharta Mukherjee – colpisca soprattutto i maschi dato che secondo le statistiche rappresentano la maggior parte dei malati. Ma i numeri bisogna saperli leggere: «Tra chi ha meno di cinquant’anni, due diagnosi di cancro su tre riguardano donne» spiega l’oncologa Ophira Ginsburg, che ha curato «Cancro, donne e potere», un numero speciale appena pubblicato dalla rivista medica Lancet in cui l’oncologia si intreccia con il femminismo. Su 2,3 milioni di donne che muoiono prematuramente di tumore ogni anno, 1,5 milioni potrebbero salvarsi se tutte accedessero ai programmi di prevenzione e di diagnosi precoce, e 800 mila sopravviverebbero se ricevessero le terapie anti-tumorali migliori. «Ma non se le possono permettere: nei Paesi con un tenore di vita di livello medio-alto le donne spendono in media il 30% del reddito familiare per la cura del cancro» dice Ginsburg. «In quelli di livello medio o basso, la spesa è pari al 160% del reddito familiare».

E i passi avanti della ricerca? I programmi ambiziosi non mancano, dal «Cancer Moonshot» della Casa Bianca al «Beating Cancer Plan» dell’Ue. Ma si fa ricerca soprattutto per cercare nuovi farmaci destinati al mercato occidentale. «Le aziende farmaceutiche oggi investono moltissimo nella ricerca di farmaci oncologici» conferma Chris Booth, oncologo alla Queen’s University di Kingston (Ontario, Canada). «Il 90% delle sperimentazioni cliniche oggi è finanziato dall’industria farmaceutica, era il 20% all’inizio degli anni Novanta».

LE AZIENDE hanno modificato gli obiettivi della ricerca. «Invece di valutare la sopravvivenza dei pazienti o la qualità di vita concessa dai farmaci – le cose che contano davvero – si valutano parametri più «addomesticabili», come la capacità dei farmaci di rallentare la progressione del tumore» dice Booth. «Così sono stati commercializzati farmaci sempre più costosi, con pesanti effetti collaterali che allungano la speranza di vita di pochi mesi». Risultato: nonostante i soldi spesi, due terzi dei farmaci ritenuti essenziali dagli oncologi sono entrati in commercio prima del 2000. Qualcuno propone uno «sciopero della scienza», per destinare risorse a rafforzare i sistemi sanitari esistenti piuttosto che sprecarne altri in farmaci utili solo a Big Pharma: una provocazione, ma fino a un certo punto.

A dieci anni da «Stop Cancer Now» nessuno ha voglia di lanciare nuovi appelli dal Monte Verità. «Sarebbe il ventesimo o il trentesimo. Meglio rimboccarsi le maniche e denunciare ciò che non è stato fatto da allora» riflette Cavalli. L’impressione è che la lotta al cancro non vada lasciata ai medici, ma debba riguardare anche povertà, ambiente, diritti. Rimane senza risposta la domanda che lascia cadere l’epidemiologo inglese Michael Marmot, intervenuto in video da Londra per sottolineare l’impatto sulla salute delle disuguaglianze sociali anche in occidente: «che senso ha curare i malati, se poi li rimettiamo nelle condizioni che li hanno fatti ammalare?»

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