Dire preoccupati è un eufemismo. Al Nazareno il nuovo affondo di Conte non se lo aspettavano, erano convinti di avergli «teso una mano» con la mediazione sulla data entro la quale raggiungere il 2% del Pil destinato alle spese militari. Mediazione peraltro reale e che potrebbe avere un prezzo, pregiudicando o almeno rendendo più ardua la candidatura italiana alla guida della Nato nel 2023. Conte invece ha proseguito l’offensiva anche se, nell’incontro di ieri con il capo dello Stato da lui stesso richiesto, ha assicurato a Sergio Mattarella di non aver alcuna intenzione di provocare la crisi di governo.

Rassicurazione necessaria, dal momento che nelle file del Pd campeggia invece il sospetto, frequentemente esplicitato nei corridoi del parlamento, che il leader dei 5 Stelle voglia arrivare al voto in settembre. È anche vero che tra i pentastellati è altrettanto vasta la convinzione che a voler creare l’incidente cogliendo così l’occasione per andarsene prima che la prossima crisi esploda sia Draghi.

Quasi certamente entrambi i sospetti sono del tutto infondati. Il fatto stesso che esistano e siano così diffusi rivela però quanto logorati siano all’interno della maggioranza i rapporti anche tra i partiti che dovrebbero essere più vicini e presto alleati nelle prossime elezioni politiche. Proprio questa rottura di un clima solidale è quel che preoccupa maggiormente il Pd. Non le prossime amministrative, tavolo nel quale i 5S pesano poco. Neppure una rottura dell’alleanza per le politiche, dal momento che, almeno per ora, non s’intravedono alternative possibili per Conte. Anche se qualche timore il riavvicinamento tra gli antichi alleati giallo-verdi lo suscita. A essere oscurata e smentita rischia però di essere la stessa offerta politica su cui conta Enrico Letta: quel «campo largo» che si configura oggi come un campo di battaglia.

Su guerra e aumento delle spese militari la tensione non si è del tutto dissolta. Tanto che nella dichiarazione di voto sul dl Ucraina, passato con la fiducia al Senato senza traumi e senza defezioni rilevanti, la capogruppo del Pd Malpezzi ha attaccato frontalmente i 5 Stelle dicendo che alcune loro mosse «hanno sorpreso e preoccupato». Né c’è solo la guerra. Ieri l’Ue ha insistito per una rapida sottoscrizione italiana della riforma del Mes, alla quale mancano solo le firme della Germania, in attesa della sentenza della sua Corte costituzionale, e dell’Italia. «Abbiamo avuto rassicurazioni che sarà così», aggiungono le fonti di Bruxelles e per i 5 Stelle sarà un boccone amaro. In compenso Conte martella sulla proposta di salario minimo presentata dal suo partito al Senato e sfida gli alleati a essere «tanto solleciti quanto sulle spese militari».

Letta, infine, deve fare i conti con il corposo dissenso interno, che coglie al balzo l’affondo di Conte per ribadire l’ostilità al progetto di alleanza con il M5S. Per romperla però sarebbe necessaria una riforma proporzionalista del sistema elettorale e l’ala anti-5S del Pd si fa poche illusioni. L’obiettivo di Letta è succedere a Draghi come capo del governo: una sfida che può vincere solo con questo sistema elettorale. Così i partiti del nuovo centrosinistra si dibattono in un vicolo cieco. Conte non può che fare il possibile per restituire visibilità, identità e ruolo politico a un Movimento che ne è oggi privo e per farlo dovrà per forza alzare sempre più la voce di qui alle elezioni. Il Pd, dal canto suo, non sembra capire che il punto critico non è «tendere una mano» su questo o quel fronte ma decidersi a trattare gli alleati appunto come tali e non come vassalli.