Il cambiamento radicale che serve ai «progressisti»
«Cronaca di una morte annunciata» è un bel libro di Garcia Marquez. Tutti sapevano che Santiago Nasar sarebbe stato ucciso dai fratelli Vicario, ma nessuno fece qualcosa per fermare quell’omicidio.
In questo mese di impalpabile campagna elettorale molisana è stato ben difficile trovare qualcuno pronto a scommettere sulla vittoria del centro-sinistra, così difficile che gli stessi candidati della coalizione Pd- Cinque stelle hanno pensato a salvare se stessi, ad inseguire preferenze, piuttosto che indicare un progetto di governo, un programma alternativo alla destra di ieri e di oggi. Un risultato annunciato, così come era chiaro che una politica che da anni ripete lo stesso copione con le stesse facce e gli stessi intrighi avrebbe portato ad un astensionismo dal voto senza precedenti.
Il 53% non ha votato e la destra ha vinto con il 29% degli aventi diritto al voto, altro che onda anomala di Meloni e Roberti. Quel che si è avuto è il dissolvimento delle forze che astrattamente si dicono del campo progressista e di sinistra: il Pd al 12%, i Cinque stelle che in cinque anni passano dal 31al 7%, insieme il Pd e i Cinque stelle hanno perso 30 mila voti.
Questi sono i numeri dai quali ogni analisi seria deve partire. Queste elezioni la destra le ha vinte coltivando quelle corporazioni sociali e quel malcostume clientelare che ha coinvolto meno del 30% dei cittadini molisani aventi diritto al voto e l’ha vinte, perché la sinistra, non da oggi, non ha né proposto e tantomeno praticato una reale ed ambiziosa alternativa. Un risultato che per un verso sottolinea, al di là della propaganda, la relatività della vittoria della destra, la miseria del « mondo progressista» e per un altro evidenzia, quanto sia profonda la crisi del sistema democratico e delle istituzioni.
Era destino che finisse così? Era scritto che dopo i disastri, universalmente riconosciuti, del presidente uscente, seguisse un consanguineo politico di destra dello stesso Toma? No, questa rotta elettorale si sarebbe potuta evitare. Un altro progetto, un’altra via non solo era possibile, ma è stata costruita, proposta negli anni e indicata alla Politica e ai vertici dei partiti «progressisti» locali e nazionali da associazioni e movimenti molisani.
Un progetto che chiedeva per il governo della regione discontinuità di principi, di programmi e di uomini. Un progetto capace di parlare a quella maggioranza di delusi dai partiti che si astiene dal voto. In molti avevano chiesto e non da oggi, una rivoluzione dolce capace di rompere la dipendenza coloniale della regione Molise da quel potere che ha fatto dei molisani un popolo di migranti e che ha rubato il futuro a tante generazioni .
I soliti noti e una vasta area di cortigiani e figuranti hanno fatto orecchie da mercante, hanno brigato per continuare ad occupare i luoghi della politica e delle istituzioni. E consapevolmente hanno ignorato anche il valore politico generale che questa elezione avrebbe avuto sia per gli equilibri politici nazionali e sia per la prospettiva della coalizione Pd-Cinque stelle.
La «coalizione progressista» può contendere il governo alla destra, ma la condizione decisiva è che si realizzi una mobilitazione di forze sociali e un nuovo protagonismo della società civile, e che i tantissimi che si astengono dal voto, avvertano la possibilità di un cambiamento reale. Verità elementari che sono state rimosse, e né da Roma sono venute parole e scelte chiare. L’argomento con il quale si è voluto rivendicare il monopolio del potere da parte dei vertici del centro-sinistra è veramente sconcertante.
Così hanno sentenziato nei giorni preelettorali: «Solo chi ha una solida esperienza di amministrazione, solo chi ha una dimestichezza con la politica amministrativa è degno di essere candidato alla presidenza della regione».
Con questo paleolitico argomento hanno liquidato la candidatura di Domenico Iannacone. Un giornalista militante molisano che si è occupato per anni dei problemi della gente più debole, di grandi questioni sociali e delle malattie dell’ambiente, e proprio per questo molto amato.
Il problema, come dovrebbe essere evidente, non era Iannacone, ma quel movimento di rottura con il malcostume della politica che chiede discontinuità e rigenerazione della democrazia, un ambiente pulito e giustizia sociale. Perché queste elezioni siano solo un brutto capitolo di una breve stagione è bene che tutti e in primo luogo i cosiddetti partiti «progressisti», a Roma come nei territori, riflettano e si preparino ad un cambiamento radicale. Questa elezione è una sconfitta amara, l’auspicio è che almeno possa essere una lezione utile.
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