Il Cairo: «I giornalisti volevano uccidere al-Sisi»
Egitto Propaganda di Stato, il ministro degli Esteri accusa i due reporter arrestati di pianificare l'omicidio del presidente. Rigettato il ricorso per la liberazione del consulente dei Regeni, Ahmed Abdallah
Egitto Propaganda di Stato, il ministro degli Esteri accusa i due reporter arrestati di pianificare l'omicidio del presidente. Rigettato il ricorso per la liberazione del consulente dei Regeni, Ahmed Abdallah
La speranza di una liberazione anticipata, paventata mercoledì dal legale Ana al-Sayed, si è spenta subito. Ieri nel primo pomeriggio la corte di appello di Abbaseya, al Cairo, ha rigettato il ricorso di Ahmed Abdallah, presidente della Commissione Egiziana per i diritti e le libertà, nonché consulente della famiglia Regeni.
Resta quindi dietro le sbarre, così come deciso dalla sentenza del 7 maggio che prolungava di altri 15 giorni il suo arresto, avvenuto all’alba del 25 aprile, il giorno della grande manifestazione anti-governativa organizzata da movimenti laici e islamisti. Il prossimo appuntamento è per il 21 maggio.
All’orizzonte non si vede alcun allentamento della pressione che il governo egiziano usa per strangolare la società civile: attivisti, artisti e avvocati continuano ad essere imprigionati, mentre le loro voci – i giornalisti – vengono condannati a morte nel silenzio generale, come nel caso dei tre dipendenti di al Jazeera imputati in uno dei processi all’ex presidente Morsi. Ieri si è toccato l’apice della propaganda di Stato: il ministro degli Esteri, Samer Shoukry, da molti considerato la faccia presentabile del regime, ha dato del raid al sindacato di domenica primo maggio una spiegazione senza precedenti. I due giornalisti arrestati quel giorno, Amr Badr e Mahmoud al-Saqa, direttore e reporter dell’agenzia indipendente January Gate, sono stati portati via perché su di loro pesa il sospetto di aver pianificato l’assassinio del presidente al-Sisi.
Shoukry ne ha parlato durante una conferenza stampa, mercoledì sera, a seguito della sessione del Consiglio di Sicurezza Nazionale. Alla domanda, scontata, sui motivi del raid, il ministro ha tirato fuori dal cilindro la carta del golpe e dell’omicidio del suo burattinaio: «Molti media indipendenti e di Stato godono di libertà di espressione. Eppure, c’è un problema tra i giornalisti se il sindacato della stampa nasconde dei ricercati. I mandati di arresto sono stati spiccati perché Badr e al-Saqa hanno istigato all’assassinio del presidente. Un’attività illegale anche negli Stati Uniti». Ma se Shoukry ha provato a chiudere con un’ironica pennellata, resta la gravità delle sue dichiarazioni che sottendono alla strategia politica interna del regime golpista: chi è contro, è un pericolo per le istituzioni e in quanto tale va zittito.
Da parte loro i giornalisti cercano di tenere duro nonostante i primi cedimenti e le fratture interne alla segreteria del sindacato. Dopo l’incontro con la commissione parlamentare per i media che mercoledì riportava di un passo indietro dei giornalisti ribelli, ieri il sindacato ha negato di aver ceduto e ribadito l’intenzione di proseguire con il sit-in ininterrotto di fronte alla propria sede, chiedendo alle altre professioni di aderire. Nell’aria ci sono nuove forme di protesta, dopo i banner su giornali e siti e la minaccia dello sciopero generale, necessari – dicono – ad ottenere quanto chiesto: scuse ufficiali e le dimissioni del ministro degli Interni Ghaffar, longa manus che tramite polizia e servizi gestisce la repressione.
Di reazioni sdegnate non se ne sentono e quando arrivano vengono facilmente smontate dal Cairo, che dalla sua gode di un’effettiva impunità. Il caso Regeni ne è un esempio palese: alle parole delle cancellerie mondiali non sono seguite azioni. Prendiamo quanto accaduto mercoledì durante un meeting del Consiglio di Sicurezza dell’Onu al Palazzo di Vetro: l’ambasciatore Usa alle Nazioni Uniti ha duramente criticato l’arresto, l’attacco e la persecuzione giudiziaria di voci critiche e giornalisti. Per molti una condanna poco velata al Cairo che in quel momento presiedeva l’incontro.
«Arrestare giornalisti, condannarli a morte, trattare i media come nemici dello Stato – ha detto Samantha Power – sono azioni controproduttive. Un tale comportamento non previene l’estremismo violento, ma lo alimenta». Parole che vanno a toccare il nervo scoperto egiziano, l’utilizzo della minaccia del terrorismo per stringere la morsa del controllo pervasivo.
Ma visto che è lo stesso strumento utilizzato dalla comunità internazionale per riempire le casse del Cairo di denaro e armi (gli Usa le riforniscono di 1,3 miliardi di dollari l’anno in aiuti militari e 150 milioni in assistenza economica ), è stato facile per Shoukry – in veste di presidente del meeting – smontare le accuse: non si stava rivolgendo all’Egitto, ha detto, erano commenti generali. Dimenticando che sono ben 29 i giornalisti dietro le sbarre.
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