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Il Cairo: «I giornalisti volevano uccidere al-Sisi»

Il Cairo: «I giornalisti volevano uccidere al-Sisi»Il presidente egiziano al-Sisi – Reuters

Egitto Propaganda di Stato, il ministro degli Esteri accusa i due reporter arrestati di pianificare l'omicidio del presidente. Rigettato il ricorso per la liberazione del consulente dei Regeni, Ahmed Abdallah

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 13 maggio 2016

La speranza di una liberazione anticipata, paventata mercoledì dal legale Ana al-Sayed, si è spenta subito. Ieri nel primo pomeriggio la corte di appello di Abbaseya, al Cairo, ha rigettato il ricorso di Ahmed Abdallah, presidente della Commissione Egiziana per i diritti e le libertà, nonché consulente della famiglia Regeni.

Resta quindi dietro le sbarre, così come deciso dalla sentenza del 7 maggio che prolungava di altri 15 giorni il suo arresto, avvenuto all’alba del 25 aprile, il giorno della grande manifestazione anti-governativa organizzata da movimenti laici e islamisti. Il prossimo appuntamento è per il 21 maggio.

All’orizzonte non si vede alcun allentamento della pressione che il governo egiziano usa per strangolare la società civile: attivisti, artisti e avvocati continuano ad essere imprigionati, mentre le loro voci – i giornalisti – vengono condannati a morte nel silenzio generale, come nel caso dei tre dipendenti di al Jazeera imputati in uno dei processi all’ex presidente Morsi. Ieri si è toccato l’apice della propaganda di Stato: il ministro degli Esteri, Samer Shoukry, da molti considerato la faccia presentabile del regime, ha dato del raid al sindacato di domenica primo maggio una spiegazione senza precedenti. I due giornalisti arrestati quel giorno, Amr Badr e Mahmoud al-Saqa, direttore e reporter dell’agenzia indipendente January Gate, sono stati portati via perché su di loro pesa il sospetto di aver pianificato l’assassinio del presidente al-Sisi.

Shoukry ne ha parlato durante una conferenza stampa, mercoledì sera, a seguito della sessione del Consiglio di Sicurezza Nazionale. Alla domanda, scontata, sui motivi del raid, il ministro ha tirato fuori dal cilindro la carta del golpe e dell’omicidio del suo burattinaio: «Molti media indipendenti e di Stato godono di libertà di espressione. Eppure, c’è un problema tra i giornalisti se il sindacato della stampa nasconde dei ricercati. I mandati di arresto sono stati spiccati perché Badr e al-Saqa hanno istigato all’assassinio del presidente. Un’attività illegale anche negli Stati Uniti». Ma se Shoukry ha provato a chiudere con un’ironica pennellata, resta la gravità delle sue dichiarazioni che sottendono alla strategia politica interna del regime golpista: chi è contro, è un pericolo per le istituzioni e in quanto tale va zittito.

Da parte loro i giornalisti cercano di tenere duro nonostante i primi cedimenti e le fratture interne alla segreteria del sindacato. Dopo l’incontro con la commissione parlamentare per i media che mercoledì riportava di un passo indietro dei giornalisti ribelli, ieri il sindacato ha negato di aver ceduto e ribadito l’intenzione di proseguire con il sit-in ininterrotto di fronte alla propria sede, chiedendo alle altre professioni di aderire. Nell’aria ci sono nuove forme di protesta, dopo i banner su giornali e siti e la minaccia dello sciopero generale, necessari – dicono – ad ottenere quanto chiesto: scuse ufficiali e le dimissioni del ministro degli Interni Ghaffar, longa manus che tramite polizia e servizi gestisce la repressione.

Di reazioni sdegnate non se ne sentono e quando arrivano vengono facilmente smontate dal Cairo, che dalla sua gode di un’effettiva impunità. Il caso Regeni ne è un esempio palese: alle parole delle cancellerie mondiali non sono seguite azioni. Prendiamo quanto accaduto mercoledì durante un meeting del Consiglio di Sicurezza dell’Onu al Palazzo di Vetro: l’ambasciatore Usa alle Nazioni Uniti ha duramente criticato l’arresto, l’attacco e la persecuzione giudiziaria di voci critiche e giornalisti. Per molti una condanna poco velata al Cairo che in quel momento presiedeva l’incontro.

«Arrestare giornalisti, condannarli a morte, trattare i media come nemici dello Stato – ha detto Samantha Power – sono azioni controproduttive. Un tale comportamento non previene l’estremismo violento, ma lo alimenta». Parole che vanno a toccare il nervo scoperto egiziano, l’utilizzo della minaccia del terrorismo per stringere la morsa del controllo pervasivo.

Ma visto che è lo stesso strumento utilizzato dalla comunità internazionale per riempire le casse del Cairo di denaro e armi (gli Usa le riforniscono di 1,3 miliardi di dollari l’anno in aiuti militari e 150 milioni in assistenza economica ), è stato facile per Shoukry – in veste di presidente del meeting – smontare le accuse: non si stava rivolgendo all’Egitto, ha detto, erano commenti generali. Dimenticando che sono ben 29 i giornalisti dietro le sbarre.

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