Europa

Il bluff di Johnson, Brexit verso il «no deal»

Il bluff di Johnson, Brexit verso il «no deal»Boris Johnson sul palco di Manchester – LaPresse

Verso il 31 ottobre La nuova proposta sul confine irlandese non convince Dublino, e neanche l’Ue

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 3 ottobre 2019

«Get Brexit done» realizzare Brexit: l’ardimentoso slogan campeggia dietro le spalle di Boris Johnson nel giorno del suo discorso alla platea adorante del congresso Tory a Manchester, la prima da leader del partito e del Paese. Nel quale ha squadernato alfine l’ultima offerta a Bruxelles per evitare l’uscita senza accordo il 31 ottobre: un tentativo di superare l’ostilità diffusa al famigerato backstop, anticipato dal “suo” giornale, il Daily Telegraph, e poi contenuta in una lettera inviata al presidente della commissione europea Jean-Claude Juncker.

In buona sostanza, l’Irlanda del Nord uscirebbe dall’unione doganale con il resto del Regno Unito, ma questo porterebbe all’introduzione di alcuni controlli doganali – anatema per l’Ue, l’Irlanda e per buona parte dello stesso parlamento britannico – anche se non avverrebbero al confine vero e proprio ma in zone decentrate. “In cambio” sarebbe introdotto un aumento dei controlli per prodotti che attraversano il mare irlandese che separa l’Irlanda del Nord dal resto della Gran Bretagna. Ciò manterrebbe l’allineamento della sola Irlanda del Nord alle regole del mercato unico, e per garantirne la democraticità il paese sarebbe chiamato a esprimersi su quest’assetto ogni cinque anni attraverso Stormont, un parlamento che, ohibò, è sospeso ormai dal gennaio 2017.

Johnson lo definisce «un compromesso giusto e ragionevole», e ha l’appoggio cruciale del Dup, anche se da Dublino arrivava la prima secchiata gelida: non soddisfa le necessità per cui è stato creato il backstop, ha detto il Taoiseach (primo ministro) Varadkar, mentre Juncker ha risposto tiepidamente e diplomaticamente. Ora le proposte sono in corso di minuziosa analisi a Bruxelles. Che verosimilmente le rigetterà, cosa di cui lo stesso Johnson è perfettamente consapevole. Non fa che ripeterlo da quando si è insediato a Downing Street, dopotutto è la ragione per cui è primo ministro: se l’Ue non accetta quest’ultimo tentativo (svogliato o meno che sia) il 31 ottobre usciremo in ogni caso, e io sono pronto alle elezioni.

Per questo il discorso si è ben presto staccato dall’ormai straziante argomento per diventare un classico Johnson: semi-improvvisato, buffo e arguto, da intrattenitore, pieno di lazzi diretti all’avversario Corbyn «il comunista» e al parlamento. Un discorso da piena campagna elettorale, che ha ricordato al congresso la ragione per cui hanno disperatamente voluto “Boris” al timone del partito: perché li fa sentire bene. E via con la solita litania dei primati del grande paese, della global Britain, che ha bruciato tante tappe e continua a costituire uno dei fari dell’Occidente. Eppure tutto questo potrebbe essere distrutto se il comunista vincesse! Pensate, vuole abolire le scuole private, e nazionalizzare indiscriminatamente. Noi invece siamo per il capitalismo, ma anche per la sanità pubblica. Un modo rapido per sconfessare il suo fuck business di qualche tempo fa che ancora fa rabbrividire la City e ribadire le inesistenti credenziali di One nation conservatism, quel torysmo «compassionevole» che il partito, da Cameron in poi, aveva smesso di simulare. Il tutto trumpianamente farcito di «fantastico», «meraviglioso», «stupefacente» e altre iperboli: fin troppo da televendita per uno che è stato a Eton.

Si ride a Manchester, anche se gli ultimi giorni sono stati plumbei. C’è stato il verdetto della Corte suprema sull’illegalità della sospensione del parlamento, più che credibili storie di palpeggiamenti (con le sue mani) e favoritismi da alcova (con denaro pubblico) nei confronti rispettivamente di una malcapitata giornalista e di una simpatetica imprenditrice, il suo linguaggio potenzialmente violento stigmatizzato da più parti. E c’è ancora da aggirare il maledetto Benn act, che lui chiama appositamente «legge della resa»: lo obbliga a chiedere una proroga del 31 ottobre a Bruxelles nella probabile ipotesi che le sue proposte appena messe sul tavolo siano respinte.

Ma questo non gli ha impedito di fare un’uscita trionfale, sulle note di Teenage Wasteland degli Who, un gruppo che era solito foderarsi di Union Jack. Infelice scelta, non tanto per l’orientamento politico della band (Daltrey probabilmente avrà anche apprezzato) ma perché ricorda brutalmente la senescenza galoppante dell’elettore Tory.

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