ExtraTerrestre

«Il bioregionalismo ti cambia la vita»

Etain AddeyEtain Addey

Intervista Etain Addey, pensatrice, scrittrice e contadina con il suo compagno Martino Lanz in un podere dell’Appennino umbro: «Se vivi in pieno il tuo luogo e ne hai cura, il luogo ha cura di te e ti parla e ti farà stare bene, che sia una campagna o un quartiere di una grande città»

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 30 maggio 2024

Si può essere turisti anche nel posto in cui si vive, se non intessiamo una relazione di scambio e di interdipendenza in cui noi ci prendiamo cura del luogo ed esso si prende cura di noi. E’ il messaggio intrinseco del pensiero bioregionale che da tempo il movimento Sentiero Bioregionale nutre e diffonde nel nostro Paese e che oggi, soprattutto in vista dei grandi cambiamenti ambientali in atto, è sempre più illuminante. Ispirandosi alle popolazioni indigene, che cantavano i luoghi, ne apprendevano le mappe naturali attraverso la trasmissione orale rifiutando i confini politici che portano chiusura, guerra e morte, il bioregionalismo è un’importante espressione dell’ecologia profonda a partire dall’esperienza diretta. Ne abbiamo parlato, in vista dell’incontro nazionale, con Etain Addey, pensatrice, scrittrice e contadina con il suo compagno Martino Lanz in un podere dell’Appennino umbro.

Etain, quali saranno i temi che tratterete durante l’incontro in Toscana?
Una delle riflessioni sarà su come parlare di bioregionalismo in un Paese che è già molto bioregionale come l’Italia. Come si fa a riformulare il messaggio distruttivo della società capitalista, che divora luoghi, persone, culture per il profitto di pochi e rilanciare invece un senso di orgoglio verso i saperi locali, affinché le persone non si sentano da meno anche se non sono andate a fare un viaggio di tre giorni in qualche luogo lontano? Perché la vita non è lì, non è un discorso contro il divertimento, anzi, se vivi a pieno il tuo luogo e ne hai cura, il luogo ha cura di te e ti parla, e ti fa stare bene, come ha fatto stare bene l’umanità per millenni. Parleremo anche della scuola e di come questa potrebbe divenire uno spazio fertile per creare unità, molto importante in questo momento in cui è urgente che ognuno rivaluti il suo quotidiano, che si cominci da piccoli a capire che la cultura umana è una crescita spontanea del luogo.

Voi avete riportato al centro il luogo, che diventa il vero protagonista, perché?
Se vogliamo superare l’antropocentrismo dobbiamo ricollocarci nel luogo e renderci conto che dipendiamo da ciò che esso può offrire. Abbiamo distolto lo sguardo dalla base della vita e questo mi preoccupa. Questa sensazione di non avere più nulla a che fare col mondo naturale, anche se in realtà è un’idea solo apparente, rende le vite precarie, così come è precario il turismo perché basta un terremoto o una pandemia per annientarlo.

Quindi dobbiamo recuperare la delizia della vita che deriva da un luogo conosciuto e amato, anche per la solidità che ci porta.
La nostra vicina mezzadra, zia Lucia, sembrava la persona più ricca del mondo anche se in realtà non aveva nulla, perché conosceva tutto della zona, sapeva dove erano i pesci, sapeva quando maturavano le nocciole, la cicoria: non era dipendente che dalla terra. Questa era la gente che si doveva ingegnare e conoscere il luogo passo per passo e per me è un modello di vita.

Sappiamo bene il meccanismo con cui il sistema raccoglie le tradizioni e le mercifica, sfigurando i territori. In che modo il bioregionalismo può fermare questo processo?
Come spesso ripete Giuseppe Moretti, ognuno ci deve arrivare da sé, non vogliamo convertire le persone. La società moderna cerca di convincerci che vendere tutto va bene, abituandoci ad attraversare i luoghi senza osservarli, cercando lo spettacolo da guardare anche quando quello che vi si celebra è l’identificazione dell’umano con lo spazio. Tornare in campagna non è l’unica alternativa a questo mondo in cui non ci troviamo bene, però vivere in un luogo che dialoga con noi è sicuramente un passo che può aiutarci a capire dove siamo. Martino racconta sempre di come potando un ulivo, anno dopo anno, senta di diventare parte di quell’albero, di esserne responsabile. E’ difficile spiegare la sensazione che questo provoca, perché è un’idea che risulta strana in occidente, ma non per i popoli indigeni del mondo, come non lo era per i nostri antenati.

E’ questo che si intende quando si parla di ridivenire persone native?
Sì, questa è una cosa molto bella del pensiero bioregionale. Ovunque tu ti trovi, non importa se quel luogo ti ha visto nascere o se vieni da un altro posto: se vivi in maniera conforme alla cultura, ai limiti, alle possibilità alimentari che esso ti offre allora si può dire che sei nativo. Se invece non ti fai bastare quello che il luogo ti offre per soddisfare i tuoi bisogni quotidiani, allora sei uno di questi finti cittadini del mondo che fanno parte della messinscena costruita dalla società dei consumi.

Quindi possiamo essere turisti anche se in quel luogo ci viviamo?
E’ così. Spesso le persone costrette a fare i lavori più umili, come molti immigrati, sono più native di quelle che in quel luogo ci sono nate. A Gubbio, dove vivo, il comune ha organizzato una visita della città per gli stranieri, e ci sono andata anche io. A un certo punto la guida ha indicato il municipio e ha detto: la sala del consiglio comunale è al secondo piano, e una delle persone ha detto: «Lo so, ho dato io il bianco alle pareti». La conosceva passo per passo. Mi è sembrato un bellissimo esempio di come alcune persone siano accolte più dal luogo che da chi lo abita.

Si può essere bioregionali anche in città?
Quando sei parte del tuo luogo, che sia in un bosco o in una città è lo stesso. La filosofa australiana Freya Mathews racconta proprio il passaggio in cui ha smesso di pensare a quando si sarebbe spostata sulle colline ed ha iniziato a prendersi cura di quel brutto quartiere di Melbourne dove abitava. La sua vita è rifiorita perché a un tratto ha scoperto l’amore verso quel luogo. E’ una chiamata all’azione: invece di occuparci di posti lontani, prendiamoci cura di quello in cui siamo, perché altrove c’è già sicuramente chi sta facendo di tutto per difendere il territorio in cui vive.

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