Tra le conseguenze più nefaste della lunga era berlusconiana c’è l’impossibilità di avere un dibattito sano, o quantomeno decente, sulla giustizia: ogni indagine viene vista come un agguato, ogni legge viene considerata come un tentativo di ingabbiare la magistratura.

Il tutto genera problemi che coinvolgono il giornalismo, tra libertà di espressione, dovere di cronaca e rapporti talvolta sin troppo stretti tra certe redazioni e certi uffici giudiziari, con annesso abbondante traffico di carte più o meno segrete e divisione del mondo in due metà, da una parte i cosiddetti giustizialisti, dall’altra i sedicenti garantisti. Questo è, in breve, il contesto all’interno del quale ci troviamo davanti all’ennesimo caso di (vera o presunta) legge bavaglio, questione che a cadenza regolare si ripropone senza che in realtà accada granché. La storia è quella dell’emendamento presentato dal deputato di Azione Enrico Costa che vieterebbe la pubblicazione «integrale o per estratto» delle ordinanze di custodia cautelare fino alla fine dell’udienza preliminare, cioè l’inizio del dibattimento. Precisiamo subito che la faccenda andrà per le lunghe (mancano un passaggio al Senato e i decreti attuativi) e che, in fondo, parliamo solo di un mirabile esempio di grida manzoniana, un manifesto ideologico le cui conseguenze pratiche sono quantomeno incerte: un bavaglino, in pratica.

Ad ogni modo, già leggiamo un considerevole numero di righe di preoccupati allarmi sul futuro della libertà di stampa. Addirittura il sindacato dei giornalisti annuncia una dura mobilitazione «in difesa della dignità della professione», già messa a dura prova da situazioni come l’incredibile caso di sostituzione di persona reso pubblico ieri da Repubblica, laddove abbiamo appreso che il silenzio assenso è uno strumento dell’inchiesta giornalistica.

Ma davvero l’informazione è minacciata? L’uso che si fa degli atti giudiziari è spesso terrificante, e non di rado le cronache giudiziarie vengono riempite con nomi di persone che alla fine non risultano innocenti, ma proprio estranee ai fatti. L’ultimo esempio, in questo senso, è la campagna che alcuni giornali di destra stanno portando avanti sui finanziamenti a Mediterranea, con sovrabbondante pubblicazione di atti dallo scarso o nullo valore penale al solo scopo di gettare fango sulle Ong che salvano i migranti in mare.

Un’altra triste consuetudine giornalistica consiste nell’appiattire le cronache sulle tesi degli investigatori. Si è letto che con l’emendamento Costa saremmo stati meno informati ad esempio sull’inchiesta Mondo di mezzo. Forse è vero, ma non possiamo dimenticare che in questo caso parliamo di un’indagine naufragata, cioè cominciata con pesanti accuse di mafia e finita con una sentenza che escludeva quel reato. C’è anche chi si lamenta del fatto che, senza poter citare un atto, il cronista potrebbe fraintendere la notizia e darla male. Su quest’ultimo punto, in effetti, il giornalismo si gioca la faccia. E vale la pena ricordare lo Sciascia di Una storia semplice: «L’italiano non è l’italiano. È il ragionare».