La transizione energetica cinese è sempre più aperta a nuove strade e sempre meno frettolosa. Il 20 aprile il Consiglio di stato ha approvato la costruzione di altri sei reattori nucleari, che si aggiungono ai 19 in costruzione: si tratta dei primi impianti approvati dopo una pausa durata quattro anni.

Il progetto tocca tre centrali già in funzione: agli impianti di Sanmen e Haiyang – rispettivamente nelle provincie costiere di Zhejiang e Shandong – si aggiungono delle versioni aggiornate degli statunitensi AP1000. Commercializzati in Cina da Westinghouse Electric Corp. come CAP1000, sono tra i reattori più avanzati nel campo del nucleare di terza generazione. Per la centrale di Lufeng, nella provincia meridionale del Guangdong, è previsto invece un nuovo reattore di produzione cinese. Si tratta del modello Hualong One (HPR1000), che sfrutta la tecnologia di terza generazione ed è al 100% un prodotto cinese. I sei reattori richiederanno una spesa di 120 miliardi di yuan (circa 17,2 miliardi di euro).

Il potenziamento delle tre centrali nucleari cinesi era passato al vaglio dei decisori marzo 2022 durante le Due sessioni, il principale appuntamento politico della legislatura cinese. In questa occasione il gruppo di lavoro aveva approvato il piano quinquennale per l’energia, una roadmap che intende dare una svolta più «pragmatica» all’intero settore. Una ripresa, quella di oggi, che parte dagli ambiziosi obbiettivi per l’abbattimento delle emissioni climalteranti e il raggiungimento della neutralità carbonica entro il 2060. Ma anche una ripresa, come tengono a sottolineare i decisori cinesi, «lenta e attenta». A risollevare l’attenzione è stata la crisi energetica dell’autunno 2021.

La carenza di energia elettrica aveva costretto oltre la metà delle provincie cinesi (nonché quelle più produttive) a razionare l’accesso all’elettricità per settimane: le fabbriche hanno aperto a turnazione, i negozi hanno ridotto l’orario di attività e i governi locali hanno «staccato la spina» a interi quartieri. La crisi ha messo Pechino davanti all’urgenza di trovare soluzioni «pulite» ed efficienti alla crescente domanda nazionale, ma senza sacrificare la qualità degli interventi e la stabilità. I reattori approvati dal Consiglio di stato rappresentano un mix della migliore tecnologia offerta da produttori nazionali e internazionali. E la distribuzione corretta ed equilibrata dell’elettricità sulla rete rimane una priorità. Ancora oggi il mercato è frammentato e inefficiente: proprio i target all’intensità energetica e lo squilibrio dei costi di carbone ed elettricità hanno contribuito allo shock dello scorso anno. Inoltre, le infrastrutture devono fare i conti con la sicurezza, che oggi passa anche dai sistemi informatici e dalla resilienza agli eventi climatici estremi.

Con questo nuovo round di allargamento degli impianti Pechino si conferma uno dei primi paesi al mondo per investimenti nel settore dell’energia nucleare, nonché uno dei più determinati al raggiungimento dell’autonomia tecnologica tout-court. La Repubblica popolare prevede di investire oltre 400 miliardi di euro per lo sviluppo dell’energia nucleare nazionale e prevede di aggiungere 120 GW di capacità energetica entro il 2030. Un «balzo» di 48 Gigawatt rispetto al 2020. Per fare una proporzione: 120,6 GW era la capacità dell’Unione Europea nel 2018 che, nonostante continui l’uscita dal nucleare di molti paesi membri, potrebbe subire un’inversione di tendenza davanti alle propensioni pro-nucleare della Commissione. L’autonomia strategica sul nucleare rimane una delle ambizioni.

L’ingresso tra i «grandi» sul mercato del nucleare è altrettanto importante per Pechino. Oggi la partita si gioca sui reattori modulari Linglong One e sullo Hualong One, progettato invece per la produzione energetica su larga scala. A febbraio, dopo cinque anni dall’inizio dei test, lo Hualong One ha addirittura ottenuto l’approvazione dei regolatori inglesi – che però tengono in sospeso l’eventuale installazione del reattore. In generale, la tecnologia cinese fatica a decollare nelle economie avanzate. Nel 2019 gli Usa hanno incluso la statale China General Nuclear Power Group (Cgn) – proprietaria di quattro impianti attivi, cinque in costruzione e due pianificati – nella lista nera degli esportatori: un altro colpo alla già acerba reputazione del nucleare cinese sui mercati internazionali. Diversa la proiezione del nucleare made in China nel Sud globale. Secondo le stime della leadership cinese, sarebbero almeno 30 i reattori che la Cina riuscirà a costruire nel contesto della Belt and Road Inititative in meno di dieci anni.

Ma per quello che riguarda la situazione nazionale, la parola chiave rimane «stabilità». Sì al nucleare per decarbonizzare, ma non come unica via in un settore energetico che deve rimanere aperto a ogni possibilità. L’entusiasmo della Cina per il nucleare non va quindi scambiato per un abbandono delle rinnovabili. È proprio in virtù dell’attenzione agli standard di sicurezza che Pechino sta facendo progressi più rapidi con l’espansione del fotovoltaico e dell’eolico. Mentre il sorpasso nucleare rimane più nella teoria che nella pratica, l’avanzamento cinese sulle rinnovabili è un dato di fatto. Nel 2020 sono stati collegati alla rete 72 GW di energia eolica, 48 GW di fotovoltaico e 13 GW di energia idroelettrica. Le centrali nucleari hanno apportato 2 GW di nuova capacità nello stesso anno. I reattori a tecnologia cinese sono una realtà che Pechino vuole coltivare, ma nei tempi richiesti dalla ricerca.