Sin dai primi giorni il governo ugandese lo ha definito come un sistema per favorire la sicurezza nazionale. D’altronde, il generale Aronda Nyakairima, ex ministro degli affari interni ugandese, lo diceva chiaramente: in una intervista del 2015, parlava di Ndaga Muntu (in ugandese carta d’identità) come un modo per monitorare e sapere dove si trovi la popolazione, un altro elemento aggiunto «all’arsenale delle armi di sicurezza».

Un framework legale che definisce il sistema e il suo scopo è entrato in vigore nello stesso anno, definendolo uno strumento per contrastare terrorismo, crimine, lavoro nero e residenza illegale nel paese. Un mix delle motivazioni più gettonate tra i governi di tutto il mondo.

Secondo l’ex ministro il sistema collezionava già 16 milioni di identità, anche se i numeri forniti nel 2019 dall’Autorità nazionale di registrazione e identificazione ugandese sulla popolazione adulta parlano di quasi 13 milioni di identità emesse. In pratica, nel 2019 solo il 67% della popolazione adulta ugandese aveva una carta d’identità e il 33% ne era invece escluso.

Oltre ad escludere chi non è ugandese e cerca di entrare nel paese da stati limitrofi (oppure gli stessi funzionari di governo) queste due parole, Ndaga Muntu, possono inibire l’accesso all’assistenza sanitaria o ai programmi di welfare sociale soprattutto per alcune categorie. Dal report pubblicato dal Centro di ricerca per la giustizia e i diritti umani nato in seno all’Università di New York, emerge come donne incinte ugandesi senza carta d’identità digitale non ricevano cure immediate presso gli ospedali.

Allo stesso modo, persone anziane non ricevono il reddito che il governo destina alle persone con più di 80 anni perché non sono in grado di provare l’esatta data di nascita al momento dell’iscrizione al sistema. Ciò è direttamente collegato al fatto che in Uganda è spesso difficile ottenere il proprio certificato di nascita.

Poco a che fare dunque con un programma di sviluppo. Se dovesse essere necessario effettuare una modifica sulla carta digitale, oppure sia da sostituire perché smarrita, i costi sono abbastanza proibitivi. Stando alle stime della Banca Mondiale nel 2020 il 41% della popolazione ugandese vive sotto la soglia estrema di povertà, ovvero con un reddito giornaliero di 5 dollari: la sostituzione della carta, così come la modifica o il rinnovo costano fino a 42 dollari.

Dietro alla fornitura di tecnologie biometriche che permettono il controllo e la sorveglianza anche il Regno Unito che, nel 2018, ha donato dispositivi per la rilevazione degli ingressi e delle uscite dei dipendenti pubblici locali favorendo le politiche repressive del governo. Dalla Cina invece, nel 2014, sono volati 750.000 dollari destinati all’installazione di apparecchiature di monitoraggio e tracciamento della criminalità nelle strade della capitale Kampala.

Cosa significa dover avere un’identità digitale? Il sistema di identità digitale è una barriera architettonica invisibile ma estremamente concreta: non essere nel sistema equivale a non esistere. Spesso i governi lanciano questi progetti associandoli alla necessità di digitalizzazione del paese diventando detentori di impronte, volti e iridi; ma come in altri casi anche in Uganda l’Autorità nazionale di registrazione e identificazione agisce in modo disomogeneo. Nel suo fulcro è digitale, con tanto di server presso la capitale; dall’altra i funzionari locali, spesso privi di dispositivi tecnologici, raccolgono dati attraverso moduli cartacei inevitabilmente soggetti a mancanze, errori o perdite di informazioni quando poi vengono inseriti a sistema.

Durante uno dei focus group realizzato dai ricercatori dell’Università di New York per lo studio citato, è emerso come spesso le persone siano costrette ad andare negli uffici amministrativi per fornire le loro impronte digitali e dare prova della propria identità, pena l’esclusione dal welfare sociale. Nel contesto ugandese, si parla di giorni di viaggio e spesso anche della corruzione che si incontra lungo il tragitto.

Il prezzo più alto da pagare, oltre al mancato accesso a diritti fondamentali come la salute e il riconoscimento della propria identità, è quello della morte. Come riportato nello studio, per un uomo anziano di Nebbi, distretto a nord ovest dalla capitale ugandese, il viaggio verso il reddito di sussistenza governativo è risultato fatale. E come se non bastasse, i familiari hanno ricevuto l’ultimo pagamento intestato al parente solo dopo che i funzionari hanno validato l’identità attraverso le impronte digitali prese dal cadavere. L’ennesimo caso a dimostrazione di quanto la tecnologia, e il suo utilizzo smodato, abbia ripercussioni concrete su diritti fondamentali riconosciuti già da tempo a livello internazionale.