All’interno di una costellazione lessicale che esibisce  una testarda ricerca del vocabolo irripetibile, quasi a  sottrarre il soggetto della poesia allo scorrere del tempo e all’oblio, la poesia di Ida Vitale, è connotata da temi e forme che ripropone fin dall’esordio del 1949, sebbene sia passata dai primi testi, contemporanei della «Generazione del ’45», fondamentale per la cultura latinoamericana, a forme più sperimentali e politicamente connotate, negli anni Sessanta e Settanta, concentrandosi su una parola che intendeva far suonare immediata e con carattere di urgenza. Durante l’esilio in Messico, dal 1973, la frequentazione di Octavio Paz la indusse a approfondire il valore dei significanti, muovendo liberamente la voce tra  sonorità musicale e semantiche  impreviste, fino ad approdare a un tono più sereno e cordiale.

Alla vigilia dei suoi cento anni, questa lunga chiacchierata è stata resa possibile dall’approdo di Ida Vitale a Roma, dove all’Università La Sapienza ha presentato la sua ultima raccolta, Tempo insoluto (tradotta da Pietro Taravacci per le edizioni Ensemble).

Nelle sue poesie è sempre presente uno sguardo attento e curioso sul mondo, scrutato come un testo inesauribile, che riserva segreti anche nelle sue pieghe più quotidiane. Da dove nasce questa attenzione?

Forse dal fatto che a partire da un certo punto della mia vita mi sono vietata di mettermi a scrivere quando mi sentivo depressa: in Uruguay abbiamo un verbo popolare e molto curioso, bajonear, che usiamo per relativizzare ciò che ci appare grave. E’ un verbo che ho tenuto presente nei momenti peggiori. La mia apertura al mondo deriva anche dalla convinzione che la poesia non sia fatta per lamentarsi, né per trasmettere ciò che ci pesa dentro: se fossero così negativi, i poeti sarebbero un pericolo sociale. La vita non sempre aiuta, ma non dobbiamo guardare troppo ai nostri dolori personali, ci sono già abbastanza catastrofi collettive, non è il caso di aggiungerci anche quelle private. Ammiro molto i poeti allegri, non solo perché credo che siano stati felici,  ma soprattutto perché hanno saputo scegliere il momento giusto per scrivere.

Tutti i suoi libri, e forse in particolare gli ultimi, sono una forma di dialogo continuo con il mondo…

Scrivere un libro significa sempre correre un rischio: quando arriva il momento di rendere pubblico quanto si è scritto, ci si trova davanti a una sorta di  muro oltre il quale gli altri ci guardano e ci chiedono conto del nostro posto nel mondo; tanto che a volte vorremmo che il libro fosse rimasto nel cassetto. A me pare che scriviamo sempre come fossimo in assenza, come se non fossimo del tutto responsabili, come in un sogno. Tutto quanto abbiamo scritto avrebbe potuto anche restare nascosto, e invece si rivela. Forse un poeta dovrebbe aspirare a venire dimenticato in quanto essere umano, e a salvare invece qualche poesia.

Lei ha attraversato momenti importanti della letteratura latinoamericana, e conosciuto quasi tutti i grandi poeti della seconda metà del Novecento. Negli anni Sessanta ci si interrogava insistentemente sull’utilità della poesia, sul suo valore sociale. Le sembra sia rimasto qualcosa di tutto ciò?

Non so, forse i cadaveri come me. In realtà siamo tutti parte di una catena, qualcosa avremo lasciato, così come qualcosa abbiamo ricevuto; non ho mai saputo se la poesia sia o sia stata utile, e oggi mi domando a cosa corrisponda la parola utilità. Tutti i poeti, mi pare, hanno un loro piccolo campo, dove coltivano le loro ossessioni, e sebbene non creda affatto che tutto ciò sia di pubblica utilità, per quanto mi riguarda se oggi mi apparisse il fantasma di Lope de Vega, di Góngora, o di uno qualsiasi degli autori che tutti ammiriamo, li ringrazierei per esserci stati e per aver scritto.

Lei ha avuto la possibilità di dialogare, fra i grandi poeti che ha conosciuto, specialmente con Octavio Paz, che incontrò  durante il suo esilio messicano. Cosa ricorda di questo incontro?

Ebbi la fortuna di far parte di una rivista da lui diretta, che allora si chiamava Vuelta e oggi Letras Libres, molto nota – allora – in tutto il continente. Octavio Paz era molto disponibile, un uomo affascinante, che faceva molte domande e sapeva ascoltare, non imponendo mai il suo sapere. Ricordo come sostenesse i giovani, e l’orgoglio con cui radunava le persone intorno alla sua rivista, uno spazio sempre aperto. C’è stato un momento in cui mi sono sentita più vicina a Paz che ad altri, ma ho anche molto ammirato Jaime Sabines: era più lontano dai circoli letterari, e scriveva una poesia che sentivo molto vicina alla mia.

Durante la sua collaborazione con «Vuelta» lei ha anche molto tradotto: dal francese, dall’inglese e dall’italiano. Come è stata la sua relazione con questo tipo di lavoro?

Mi è sempre piaciuto, ma lo considero anche pericoloso, perché ci sono casi in cui se si impone il proprio gusto si finisce per uccidere l’autore. Credo comunque che alla resa dei conti sia un buon modo per indirizzare verso gli altri il proprio entusiasmo per uno scrittore amato. Ho scritto anche una poesia sul tradurre, ma forse non avrei dovuto, perché svaluta un po’ questo lavoro, che un tempo facevo per diletto e poi di necessità per lavoro, probabilmente senza seguire tutte le regole del mestiere, ma cercando di aprirmi una strada per arrivare a capire l’autore in questione. In una stagione di grande effervescenza teatrale, a Montevideo, quando le persone si riunivano spontaneamente con il desiderio di fare del teatro, è stato per me molto bello assecondare quell’entusiasmo traducendo.

Tra le sue traduzioni ce ne sono molte di autori italiani. Come si è avvicinata alla nostra letteratura?

La mia famiglia, per parte del mio nonno paterno, era di origine italiana, e in casa – negli scaffali sotto il telefono – c’era un’intera collezione di libri in francese e in italiano, che tuttavia mi era consentito solo spolverare: non leggevo quelle lingue,  e imparai l’italiano solo a scuola, grazie a un’insegnante della quale non ho mai dimenticato il nome, Clelia Ceccarelli. Era arrivata durante la guerra, un evento per noi lontano, di cui leggevamo sui giornali. Ci ritrovammo dunque a avere tra noi una vittima della guerra, una donna che a noi sembrava anziana, ma avrà avuto circa cinquant’anni, sola, che aveva dovuto abbandonare l’Europa per l’Uruguay. Era l’insegnante più rispettata della classe, inflessibile con sé stessa e con noi, mai in ritardo, sempre presente, impeccabile. Quel che si era lasciata alle spalle non osammo mai chiederglielo, ma fu lei a trasmetterci  la consapevolezza di quanto accadeva nel mondo, al di là dei titoli dei giornali. Non ho mai avuto sue notizie  da che riuscì a tornare in Italia, ma è grazie a lei che ho studiato la lingua italiana e ho potuto leggerne la poesia, cosa di cui le sono ancora immensamente grata.

Nei suoi versi è chiaramente presente un dialogo con la cultura di tutte le geografie, fatto di citazioni intertestuali, riferimenti a artisti di tutto il mondo, exergo tratti da tanti autori diversi. Questa ricchezza di riferimenti è dovuta alla sua formazione?

La mia formazione, come più o meno quella di tutta la mia generazione, è stata in realtà molto aleatoria, ma certamente assai ricca  di stimoli: per me, era un po’ come arrivare in una libreria dell’usato, trovare il titolo di un autore mai sentito, e lasciarsi coinvolgere da quella scrittura. Ho imparato che bisogna essere aperti ai libri che ci capitano tra le mani, e sono stata aiutata dal fatto di vivere in un quartiere dove c’erano molte librerie, vicino all’Università. In quegli anni, frequentavo anche molto l’Auditorium, un luogo dove invitavano spesso artisti interessanti, gradevole, sembrava un piccolo teatro ed era diretto da un poeta che non è mai stato molto considerato in Uruguay, Carlos Rodriguez Pintos. Era anche il nostro insegnante di francese, quello che mi attirava di più e insieme il peggiore: non seguiva il programma, ci parlava di letteratura, libri strani per noi, che venivano dalla Francia e in genere dall’Europa.

Fin dai primi del Novecento, la letteratura uruguaiana ha avuto una grande presenza di voci femminili: come si spiega, secondo lei?

Direi che le donne non se la sono mai passata troppo male in Uruguay: avevano la possibilità di studiare, tanto quanto gli uomini, e anche nella mia famiglia, c’erano insegnanti, persone colte, lettrici, dalle quali ho ereditato qualcosa. Una di loro era  una zia che dirigeva una scuola, era molto conosciuta, la ricordo come l’immagine della responsabilità. Quando andai in un collegio femminile, mi ritrovai a dirmi che avevamo un compito per il futuro e eravamo in tante a condividerlo.

In che modo sente di avere affrontato, soprattutto all’inizio della sua traiettoria intellettuale, questo compito?

Sono cresciuta con la convinzione che l’Uruguay fosse un po’ fuori dal mondo, o meglio salvaguardato dai problemi di altri paesi. Per quanto sbagliassi, era un’illusione condivisa da molti, ovvero da persone distratte. Sebbene fossimo un piccolo paese in mezzo ai giganti, infatti, abbiamo sperimentato il tragico destino di riflettere i problemi degli altri, dimenticando i nostri, che non avevamo risolto. Ho sempre sentito un’enorme gratitudine, nel periodo della mia formazione, per uno scrittore spagnolo oggi quasi dimenticato, José Bergamín, che apparteneva alla generazione del ‘27, quella di García Lorca e di Alberti. Non arrivò mai a essere altrettanto famoso, ma per noi fu fondamentale, perché arrivò dalla Spagna della Guerra Civile,  e in quanto esule che si era lasciato alle spalle un paese distrutto, in cui un po’ tutte le nostre famiglie avevano qualcuno che era andato a combattere, ci raccontava in prima persona quello che era accaduto, e con il suo sguardo obiettivo ci rese consapevoli di molti problemi che in America, o almeno nell’Uruguay della mia generazione, non erano così evidenti. Era un eccellente insegnante, un grande scrittore, e il suo arrivo fu davvero un regalo per  le nostre coscienze: era molto consapevole del suo ruolo, in quanto spagnolo approdato nell’Uruguay così lontano. Molti paesi dell’America Latina hanno avuto in quegli anni la fortuna di ricevere i rifugiati spagnoli, che sono stati una ricchezza per tutti. Bergamin fu anche il primo scrittore straniero con cui abbiamo avuto una relazione diretta: accettò di seguire un gruppo di studenti, fu meraviglioso, era come avere lezioni private tutti i giorni: era anche molto esigente, dava per scontate tante cose che per noi non lo erano e questo ci obbligava a studiare. All’epoca l’Uruguay non aveva una cultura consolidata, era un paese giovane, anche rispetto agli altri paesi latinoamericani. In Cile avevano Neruda, ma anche molti altri scrittori, che in quegli anni mi interessavano di più; a Buenos Aires c’era Borges, che già era un gigante. Il nostro e quello argentino erano due mondi del tutto separati, loro ci guardavano un po’ dall’alto in basso, avevano case editrici, riviste, circoli letterari, mentre in Uruguay in quegli anni anche solo pubblicare un libro era un’impresa. Ho sempre pensato che molti scrittori uruguayani, tra quelli che ho poi riscoperto, se fossero nati altrove sarebbero stati più apprezzati: immagino  non si sia mai sentito qui, per esempio,  il nome di Francisco Espinola, un  uomo di città che scrisse racconti rurali molto belli, con un umorismo che alcuni non sopportano, ma che credo sia un ingrediente molto importante della letteratura.

Ha ricordato prima Borges: ebbe mai occasione di incontrarlo?
Veniva spesso a Montevideo, ma io allora ero molto giovane. Una volta lo vidi che osservava la vetrina di un negozio, non ricordo se fosse un ferramenta o un rivenditore di scarpe per bambini, e il suo atteggiamento mi indusse a chiedermi se, in realtà, non  stesse cercando di  capire se da lì passassero o meno gli autobus. Già allora non ci vedeva bene, dunque mi avvicinai e gli chiesi: «Borges, vuole attraversare la strada?» Mi rispose di no, poi quasi balbettando aggiunse che stava aspettando qualcuno. «Ma tu chi sei?», mi chiese. Nessuno, gli risposi, non sono nessuno, ma so chi è lei. Me ne andai e non lo incontrai mai più.