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Ian Fleming, un Bond romantico con sposina, da rileggere sessant’anni dopo

Ian Fleming, un Bond romantico con sposina, da rileggere sessant’anni dopoGeorge Lazenby e Diana Rigg in una scena del film «On Her Majesty's Secret Service», 1969, Photo by United Artist / Getty Images

La serie da Adelphi In «Al servizio segreto di Sua Maestà» (1963), che si conclude con un colpo di scena, lo 007 inglese non esibisce mai pistole: l’arma letale è il corpo, fortificato con prove durissime e nutrito con giudizio, alcool a parte

Pubblicato 11 mesi faEdizione del 3 dicembre 2023

Vale la pena rileggere un James Bond di sessant’anni fa? Una bella sorpresa! se si tratta della nuova edizione italiana di Al servizio segreto di Sua Maestà, appartenente alla trilogia della Spectre – la società segreta che vorrebbe distruggere il mondo –, iniziata con Thunderball e terminata con Si vive solo due volte: torna da Adelphi, nella collana «Fabula», per la traduzione di Massimo Bocchiola (pp. 277, euro  22,00). Noi lettori di oggi, esperti di Covid e di spionaggio, non ci stupiamo che Ian Fleming conosca cose possibili e impossibili e imminenti: ad esempio l’epidemia aviaria, «con un virus molto contagioso, e una mortalità del cento per cento», e persegua vari progetti di guerra biologica, chimica e radiologica. Gli è nota l’abilità dei russi nell’uso dell’ipnosi profonda su soggetti ingenui , «con voce bassa e salmodiante»…

Magistrale il colpo di scena nell’ultimo paragrafo dell’ultima pagina: lo sparo mortale alla sposina di Bond al volante della sua Lancia bianca: «Bond batté la testa contro il telaio del parabrezza e svenne. Quando riprese i sensi un uomo nella divisa cachi dell ’Autobahnpolizei lo stava scrollando. Il volto da ragazzo era una maschera d’orrore … Bond si voltò verso Tracy. Giaceva in avanti con la faccia tra i resti del cruscotto». Bond ha sposato Tracy mezz’ora prima, e adesso è vedovo. Reagisce da uomo d’ordine, nasconde il suo doppio fallimento, di marito e di 007. «‘È tutto a posto’ disse con voce chiara, come se parlasse a un bambino. ‘Tutto a posto, sì. Lei sta riposando. Tra poco ripartiamo. Non c’è fretta. Vede…’».

Tracy, all’anagrafe Teresa, è figlia del potente Marc-Ange Draco, capo dell’Unione Còrsa, rozzo, ricco ma dal cuore d’oro. Mentre Tracy era in Svizzera a curare la sua infelice esperienza di divorziata da un conte italiano, Marc-Ange un poco alla volta trasforma l’elegante, asciutto, feroce 007, in un sollecito marito, puzzolente d’aglio, per l’amata figlia, sua unica erede. «Nel portone a battenti del fienile si apri una porticina e uscì Marc-Ange: ‘ Vieni, entra, amico mio. Sei giusto in tempo per qualche buona salciccia di Strasburgo e un Riquewilur appena possibile. Un po’ aspro e senza corpo. Io lo avrei chiamato ‘Pis-de-Chat’, ma serve a levare la sete.’ Nel bel film di Peter Hunt (1969) Gabriele Ferzetti, padre elegante e vero italiano, schiaffeggiava la figlia disobbediente Teresa Tracy, interpretata da Diana Rigg (scomparsa nel 2020).

È dunque un Fleming di buona annata che ci offre un Bond bambino al mare mentre gode della sabbia calda e fine, poco prima di essere lanciato adulto e vincente nello splendore del casinò di Royale des les Eaux. Qui il nostro Bond avanza, elegante e sicuro, tra nominativi in francese che denotano gli operatori, le funzioni, i gesti, gli oggetti, le frasi che volano nello spazio stregato: Carte d’entrée, chef de jeu, hussiers, en garage, les jeux sont faits, cagnotte… Potrebbero seguire lunghi elenchi di alcolici pregiati, di auto eccezionali sfreccianti a gran velocità, un Rolex d’oro da usare come arma impropria. L’agente 007 ha licenza di uccidere ma in giusto rapporto al numero dei supposti avversari … Comunque non più di tre. Questo Bond romantico interpretato da George Lazenby e diretto da Hunt, non esibisce mai pistole.

L’arma letale è il proprio corpo che lui nutre giudiziosamente (ma beve troppo!) e fortifica con prove durissime che impone a sé stesso come disciplina. Non tiene conto né della sua integrità fisica, né della bellezza, né della necessità di quel che solo una luna splendente sorveglia e protegge come un occhio divino. Le due discese sul bob sarebbero mortali – la seconda inseguendo il bieco Blofeld in fuga – se Bond non godesse delle simpatie del suo scaltro autore.

Fleming fa grande uso di «realities», ossia incidenti non previsti che però facilitano una situazione difficile proprio per il loro carattere improvviso, miracoloso quasi, e svelano una realtà nascosta in un lampo di salvezza – «lo stridio di rotaie d’acciaio sotto di lui, un rombo spaventoso nelle orecchie e, a pochi metri, lo schiamazzo feroce della sirena del treno. Bond atterrò sulla strada gelata, cercando di non fermarsi … Nello stesso momento gli spruzzi dello spazzaneve che ora lo raggiungevano si colorarono di rosa. Bond si tolse un po’ di neve dalla faccia e la guardò. Gli venne il voltastomaco».

Senza retorica opera l’uomo del Bene, mentre si dilegua vilmente il campione del Male, Blofeld. Che lascia dietro di sé una scia grottesca e puerile: la bruttezza corrotta, lo stupido snobismo, la disumanità. Al cinema trionferà l’ingegnosità scenografica del regista di turno (Terence Young, Lewis Gilbert) per issarlo come condannato sulla grandiosa catastrofe finale. Siamo grati a Hunt che ha sobriamente rispettato Fleming. «Il giovane poliziotto diede un ultimo sguardo atterrito alla coppia immobile, poi corse alla sua moto, prese il microfono della radio e cominciò a parlare concitatamente con la stazione di soccorso».

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