La narrativa contemporanea che attinge alle «storie vere» sembra prediligere l’antico trucco di attirare sospetti su di sé: insinua nel lettore il dubbio di avere letto il falso, crea le condizioni per rendersi inaffidabile, e per farlo utilizza la strategia prettamente difensiva di negare l’evidenza, istruendo il lettore circa il fatto che gli eventi narrati non hanno consistenza fuori dalla pagina, poiché sono anch’essi figure, miti, chimere. Tra i più autorevoli interpreti della nonfiction letteraria europea, Jan Brokken si distingue anche per il suo sottrarsi a questa moda, evitando –  sia pure in una vistosa propensione per la scrittura elaborata – di mettere in discussione il proprio ruolo di osservatore della realtà, di cui rinuncia a spacciarsi per artefice: da quarant’anni, nella sua opera, una ligia compostezza della voce narrante si inserisce all’interno di strutture, queste sì, involute e disorientanti, composte tuttavia di materiale storico e biografico ampiamente documentato.

Sfilze di nomi, carrellate di aneddotica, concatenazioni di letteratura secondaria scorrono sotto gli occhi del lettore provocandogli una vertigine del tutto simile a quella che gli verrebbe da un romanzo. E sta proprio in questa sua ambivalenza, benché priva di intenti manipolatori, il potere illusionistico dell’autore olandese.

È sotto questa luce che andranno valutati alcuni passaggi di La suite di Giava (traduzione di Claudia Cozzi, Iperborea, pp. 256, € 17,50) dove Brokken annuncia, in apertura, di avere recuperato la corrispondenza che la madre aveva intrattenuto con amici e familiari durante un lungo soggiorno nelle Indie Orientali, all’epoca colonia olandese. L’epistolario copre quasi quindici anni di vita in Asia, dall’inizio degli anni Trenta, quando i genitori dell’autore, poco più che ventenni, erano partiti per Batavia, fino alla Seconda Guerra Mondiale quando furono imprigionati dai giapponesi. Se il contenuto biografico è restituito pedissequamente, ravvivato qua e là da piccoli inserti fantasiosi, il profilo umano che viene fuori dai faldoni esercita il fascino intimo della reliquia, ed è al contempo sufficientemente lacunoso da spingere lo scrittore a completarlo. Di fronte alle lusinghe di queste possibilità narrative, Brokken sceglie di chiamare sua madre «Olga», e quasi mai «mia madre», assumendo la postura del «giornalista d’inchiesta» e ponendo dunque una significativa distanza tra la sua immagine privata, quella familiare, e gli scritti che ha ereditato.

Per stabilire in che misura lo scrittore riesca a onorare il suo proposito, l’esame del contenuto di realtà risulta poco utile, in quanto puntualmente rispettato. Tutte le storie di Jan Brokken – dai Giusti al Giardino dei cosacchi, prevedono complicate tessiture, prolungate anche per l’interezza di un’opera, al fine di illuminare, nella ricostruzione generale, la convergenza delle trame, la coerenza dei fatti. Anche qui, nella Suite di Giava, l’autore sembra in cerca di conferme, e si muove con maggior trasporto man mano che le ottiene.

A innescare l’indagine sono le note diffuse dalla radio dei «Giardini di Buitenzorg», forse il movimento più conosciuto della composizione di Leopold Godowskij, interprete di un sincretismo musicale che attinge alla  tradizione giavanese, e che per primo traghettò in Europa il suono del gamelan, un repertorio melodico e percussivo la cui «sonorità bronzea» è allo stesso tempo «delicata e penetrante, con il tono più scuro e profondo del gong». Tra i pochi compositori a prestare il suo orecchio alla lezione asiatica, durante un soggiorno nelle Indie Orientali, Godowskij la apprese da Paul J. Seelig, massimo pianista locale, il cui tragico destino si lega intimamente, per quanto a distanza, a quello di Olga. Godowskij era ebreo, e rientrava in quella generazione di artisti e intellettuali che Brokken ha raccontato in Anime Baltiche.

Nel riassumere le sue vicende musicali, lo scrittore olandese passa a quella disinvoltura che aveva cercato e non trovato di fronte alla figura materna; si esalta davanti al vuoto, e per scacciare la nostalgia la stempera con l’erudizione. «Leopold non aveva nemmeno due anni quando suo padre morì. Mordkhel Godowskij era stato un abile feldsher, dottore di campagna, che aveva cercato di impedire un’epidemia di colera ma ne era rimasto contagiato. Tutto ciò che Leopold ricordava vagamente era di essere stato sulle ginocchia di suo padre; definì quel ricordo “l’unica oasi del suo deserto mentale”. Per il resto niente, il vuoto».

Il libro verte, comunque, attorno ai vissuti della madre, ne coglie i primi entusiasmi dopo l’approdo a Buitenzorg, nei pressi di un bellissimo giardino botanico, animata da velleità di civilizzazione nei confronti delle culture locali, ma anche da una meno scontata curiosità. Brokken elenca le difficoltà di adattamento a un territorio vastissimo, frastagliato, impervio, dove alla conduzione di una vita borghese andavano affiancate indispensabili doti di intraprendenza. I momenti di tenerezza nei confronti di Olga vengono centellinati, Brokken sa di non potersi affidare ai non detti, alle reticenze e alle vaghezze dell’epistolario per irretire il lettore; è conscio del fatto che  una scrittura ingenua delle colonie non è più accettabile. Dopo avere passato un certo periodo di tempo tra Giava e Batavia i genitori, entrambi giovani teologi, si erano spostati sull’isola di Celebes (oggi Sulawesi), dove il padre, Han, si occupava di studiare e promuovere i movimenti religiosi cristiani.

Oggi l’Indonesia è il più grande paese musulmano al mondo, e già prima dell’indipendenza le altre fedi erano sparpagliate ovunque nell’arcipelago, ma decisamente minoritarie. Varietà etnica e profonde differenze linguistiche, tra giavanese, buginese e makassar, solo in parte colmate dall’introduzione del malese, erano i maggiori ostacoli a una comprensione dei fenomeni religiosi del paese che Brokken  si fa carico di illustrare con compiaciuta dovizia di dettagli, fra digressioni sui culti sciamanici, focalizzazioni sui capi spirituali in lotta con l’autorità, epifenomeni di una società feudale di cui la potenza coloniale si faceva garante, e che tra le pagine della Suite di Giava affiorano come voci inascoltate, muovendosi nella «zona d’ombra tra l’Islam e il cristianesimo delle origini».

Abile narratore delle moltitudini, Jan Brokken dà voce agli individui che hanno qualcosa da rivelare iscrivendoli in una più larga cornice. Se nell’individuare i punti di contatto tra la sua vicenda familiare e la contorta storia indonesiana trova una qualche forma di appagamento, Brokken può dirsi tuttavia un narratore irreprensibile: i destini cui ha dato voce sono realmente intrecciati, e nell’enorme apparato che allestisce non c’è finzione. L’equilibrio tra la verità della cronaca e la sua dispersione nel ricordo è impercettibile, e via via che le prove dei fatti sembrano mostrarsi insufficienti, fornendone di sempre nuove l’autore prova a convincerci sull’innocenza della sua prosa.