I Rossetti, ménage d’avanguardia con impronta figurale
A Londra, Tate Britain Il clan dei Rossetti – Dante Gabriel, la sorella Christina e gli altri: gli oggetti e le carte della domesticità obbligata rivelano la pregnanza di un pensiero «metaforico» di stampo dantesco
A Londra, Tate Britain Il clan dei Rossetti – Dante Gabriel, la sorella Christina e gli altri: gli oggetti e le carte della domesticità obbligata rivelano la pregnanza di un pensiero «metaforico» di stampo dantesco
Ha in fondo l’aria degli incontri inevitabili quello che, lungo le sale al pian terreno della Tate Britain, affronta i visitatori alle sequenze frenetiche, in disordine paranoico, di una pellicola diretta da Ken Russell, Dante’s Inferno del 1967. Non è infatti esclusivamente il sottotitolo a renderne necessaria la presenza in una fra le mostre aperte oggi al museo londinese: se il film, girato per la serie Omnibus della BBC, si riassume nella didascalia The Private Life of Dante Gabriel Rossetti, Poet and Painter, è soprattutto la lingua del regista a rimarcarne la coerenza col percorso dedicato al clan Rossetti, nutritosi sulla metà del secolo decimonono di versi e immagini, di musei e letteratura, di manifesti e favole.
Fotogrammi in bianco e nero, zeppi di simbolismi e grassi d’umori, al limite del kitsch, in cui riflessi della realtà contemporanea riverberano attraverso la lente di tempi distanti: oltre al persuasivo profilo di Oliver Reed, bolso e acceso al punto giusto, è la stessa costruzione retorica a motivare il parallelo coi quadri e con i versi di Gabriel e Christina, dal Goblin Market del 1862 alla Venus Verticordia, dipinta solo pochi anni dopo. Al centro una visione figurale della realtà, ricondotta – come per genesi caratterizzante – alla Divina commedia e alla densa scolastica del XIII secolo, fitta d’idee e assoluti, velati a posteriori da cedimenti floreali e da un senso morbido della forma, del chiaroscuro.
È vero che l’esposizione, nel dipanare le vicende di una famiglia allargata, di un nucleo poroso e alternativo, intriso d’amicizie, d’amori, di accordi e legami avviluppanti, segue la discendenza albionica dei Rossetti, radicandola – sulla scena di un’Inghilterra in via d’industrializzazione – in fatti privati, scelte individuali, convinzioni profonde o tranche de vie dolorose. Assumono così un senso nuovo i cimeli macabri e i ricordi sentimentali, come le ciocche di capelli del pittore e della moglie, la coraggiosa Elizabeth Siddal, accostati oltre la morte da una passione imperitura e in mostra uniti da una rinnovata prospettiva critica; similmente, non sfuggono a uno sguardo femminista, inteso per scandagliare opportunità e divieti, le icone giovani della prole di Gabriele, italiano, napoleonico e rivoluzionario, costretto in esilio oltremanica per colpa di una salda fede liberale: Christina, severa e castigata nelle bande di capelli bipartite, abiti grigi e breviario alla mano; il fratello maggiore, selvatico e adorato, in completi scuri di velluto, macchiati per noncuranza e povertà, la chioma prima corta, poi lunga a seguire le oscillazioni impudenti di un’adolescenza eterna.
Tale faconda aneddotica, prossima al mito e consegnata alla tradizione leggendaria, assume pertanto consistenza di precisa condizione sociale mentre, sulla scorta di studi recenti, perfino le scelte di fede – la caparbia appartenenza della poetessa alla chiesa anglicana, il perdurante odio antiborghese del pittore, avverso a ogni moralismo d’accatto – si rivestono di fisionomie più esatte, sintomi d’esistenze distese su background storicizzati.
L’idea di fondo – in coerenza col riallestimento recente della Tate, vagliato in polemiche e dibattiti specialistici – è insomma quello di sottolineare la radicalità di un ménage de bohème, in anticipo sulla decadenza fine secolo e allineato con le esperienze coeve di una scapigliatura continentale, specialmente francese, descritta nelle audaci prefazioni di Hugo, nei romanzi perversi di Balzac e nelle cronache poveristiche di Henri Murger. In quest’ottica, ad esempio, è riletta, fra cronaca e journal intime, un’opera incompiuta e tuttavia capitale come Found di Rossetti, concepita e poi impiastrata di couches sovrapposte sin dentro agli anni ottanta dell’Ottocento, lungo un’interminabile fase di lavorazione; e perfino le ballate della sorella, rapite come suonano da segreti e folletti, dischiudono la propria vena diaristica, cogente e «moderna», di fronte agli impegni da care-giver che caratterizzarono il quotidiano della scrittrice ancora in età matura, quando, ormai celebre e ricca, s’era fatta colonna portante del gineceo sopravvissuto nella casa di famiglia, al numero 30 di Torrington Square, fra souvenirs della stagione gloriosa e vecchie stampe devote, tipo il Buon Pastore dell’oscuro Frederic Shields.
Si tratta di interpretazioni promosse dagli studi di Jan Marsh o da volumi come la raccolta curata nel 2018 da Susan Owens e Nicholas Tromans (Christina Rossetti. Poetry in Art), che scavando nella domesticità obbligata della «sorellanza» preraffaellita hanno incontrato, in spiragli offerti dal «buco della serratura», dalle confessioni intime, dalle corrispondenze familiari strumentazioni innovative per elucidare l’esperienza di quell’avanguardia, parafrasando in ottica inedita parabole note e piuttosto articolate, spesso interconnesse, sempre mosse da un groviglio di parole e affetti reciproci, sublimati in simboli o rebus iconografici.
Il bandolo riannodato da indagini siffatte è certo suggestivo e quasi sempre convincente, nell’ampliare lo spettro d’interessi e di curiosità a campi che il soffocante medievalismo rossettiano sembra contrastare per diritto di rêverie (nonostante il coerente anarchismo di una figura tutt’altro che secondaria per la confraternita e le sue attività, il credo sbandierato cioè da William Morris): e se la sala dedicata all’ambizioso The Bride offre una pausa irrilevante, fin troppo accordato all’air du temps secondo una qualche acribia postcoloniale, è vero nondimeno che icone eterne come la perturbante Lady Lilith si aprono a confronti stringenti con la propria attualità, pur nell’abbondanza di boccioli e pellicce, di riccioli e cuoi bullonati.
Tuttavia l’apporto più profondo del percorso imbastito alla Tate di sala in sala e da parete a parete, anche in un’ottica rivolta all’‘oggi’ condiviso dal pubblico e dall’istituzione, è certo quello che consente di smarcare la forbitissima, libresca koinè dei Rossetti da un gioco di specchi bibliomane e oppiaceo, riconsegnando indiscutibile pregnanza al pensiero «metaforico» (figurale, si diceva all’inizio, con notazione auerbachiana), capacità di affondo nel cuore stesso di un presente tribolato. D’altronde, basta riandare con gli occhi alla candida, debosciata Ecce Ancilla Domini! di metà secolo, con la sua aria di teatrino di famiglia giocato fra ragazzi terribili e saccenti (se l’autore è Dante Gabriel, la Vergine ha il volto emaciato di Christina, l’Angelo i fianchi slanciati e nudi del fratello di mezzo, William Michael), per accorgersi come una scena devota d’Evangelio potesse già suggerire profondità da Unheimlich freudiano, mettendo in circolo idee tutte tremanti di femminile e di maschile, ben più «novecento» delle suffragette in lotta per il voto universale.
Certo, trascorso quasi un secolo, l’introspezione immoralista suggerita dal dipinto avrebbe rimato negli occhi non meno chiari di un’altra primadonna inglese, Vanessa Redgrave, con l’engagement furioso della pasionaria comunista: ma non è forse un caso che anche l’attrice, per affermare il proprio irresistibile modello di rivoluzionaria sofisticata, sarebbe passata dal travestimento flamboyant di suor Giovanna da Loudun, ne I diavoli del 1971; un altro film del visionario Russell, per l’appunto…
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