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I rischi per l’Italia della politica economica di Biden

I rischi per l’Italia della politica economica di BidenMario Draghi – Ap - LaPresse

Stati uniti e Europa Autorevoli voci critiche su un possibile rimbalzo dei tassi di interesse, fermi da 10 anni, dopo la recente accelerazione dei prezzi al consumo (+4,2%) e del rendimento dei titoli

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 22 maggio 2021

Negli Stati uniti recessione da pandemia e aspre tensioni sociali hanno provocato un disorientamento con possibili, pesanti ripercussioni sul resto del mondo. Ne è scaturita la politica di bilancio oltremodo espansiva che l’amministrazione Biden ha avviato non appena insediata, all’inizio dell’anno.

Nel 2020 il Pil degli Usa era diminuito (-3,5%) più che nelle precedenti recessioni postbelliche, ma meno che nell’insieme delle economie avanzate (-4,7%). L’amministrazione Trump era ricorsa in minor misura di altri paesi alla chiusura delle attività produttive, al prezzo di un più alto numero di contagi e di decessi da pandemia. Aveva anche improvvisato una pioggia di aiuti pubblici, tale da accrescere del 6% nell’intero 2020 il reddito reale disponibile dei cittadini, l’aumento più alto dal 1984.

I bassi tassi d’interesse avevano contribuito a sostenere la domanda di beni di consumo durevoli (+12% nell’anno) e gli investimenti in costruzioni residenziali (+14% nell’anno).

Dopo la caduta del prodotto, fra il primo e il secondo trimestre, nella seconda parte del 2020 l’economia era già in netta ripresa. Influivano anche le notizie sulla produzione dei vaccini, opportunamente sollecitata e finanziata dallo Stato, e sulla loro rapida distribuzione.

L’aumento degli occupati e il calo del tasso di disoccupazione (al 6% della forza-lavoro nel marzo del 2021) inducevano il governo Biden a considerare la riapertura all’immigrazione dal Sud, dopo la chiusura attuata dal governo Trump, assurda anche perché attuata quando si registravano scarsità di lavoro e piena occupazione negli Stati uniti.

Nonostante il rimbalzo dell’economia, la banca centrale continuava a largheggiare nella creazione della liquidità (+10% l’anno nel decennio precedente). Più che sostenere gli investimenti, essa alimentava la speculazione al rialzo in borsa e indeboliva il dollaro.

Soprattutto, sulla scia dei 900 miliardi di dollari di spesa pubblica (4% del Pil) deliberati dall’amministrazione Trump, il governo Biden stanziava altri «ristori» dell’ordine di 1,9 trilioni (9% del Pil).

Vi si aggiungeranno gli investimenti pubblici in infrastrutture previsti dall’American Jobs Plan per 2,2 trilioni, da devolvere in otto anni (1,5% del Pil all’anno, in media) alle gravi carenze nei trasporti, utilities, scuole, ospedali, ricerca. A fine aprile Biden prospettava un ulteriore piano di sostegni alle famiglie di 1,8 trilioni.

Il complesso degli interventi si aggirerebbe nel tempo sui 7 trilioni di dollari: una cifra smodata, pari a circa un terzo dell’attuale Pil.

Pur essendo il moltiplicatore dei trasferimenti notevolmente inferiore a quello degli investimenti, è molto forte la spinta che il volume della spesa pubblica messa in campo e di quella programmata eserciterà sulla domanda globale e sulle aspettative in una economia già in espansione.

Alcune, isolate ma autorevoli, voci critiche hanno prontamente denunciato il rischio che si riaccenda l’inflazione e si inneschi un rimbalzo dei tassi dell’interesse, da oltre un decennio attestati su minimi storici in termini nominali (cfr. L.H. Summers, The Biden stimulus is admirably ambitious. But it brings some risks too, in The Washington Post, 5 febbraio 2021). La concretezza del rischio ha trovato riscontro nell’accelerazione dei prezzi al consumo (al 4,2% in aprile, rispetto a poco più dell’1% nei mesi precedenti) e nel rialzo del rendimento dei titoli pubblici a lunga scadenza (salito dall’1,4 al 2,5%).

Al di là dei possibili errori dei suoi economisti e della subalternità della Fed, il governo Biden ha scelto di correre una simile alea, e di farla correre al mondo intero, evidentemente perché conscio della fragile condizione della società civile americana.

La decisione sarebbe, quindi, squisitamente politica. In particolare, gli aiuti pubblici agli strati meno abbienti e alla frustrata borghesia piccolo-media – ai bianchi non ispanici e non laureati – sono volti a tenere incollati i cocci di un paese sull’orlo della disgregazione, del rifiuto della democrazia, della guerra civile.

Sarà sufficiente? L’intenzione di coprire almeno una parte delle crescenti uscite di bilancio con tassazione progressiva – come auspicato dal Ministro del Tesoro, Janet Yellen – è, più che lodevole, necessitata. Ma dovrà trasformarsi in fatti.

L’evasione ed elusione delle imposte, segnatamente da parte delle maggiori imprese, è ingente. Le difficoltà sono di piena evidenza: risicata maggioranza democratica in Parlamento; freddezza di una parte dei bianchi poveri persino di fronte a misure a loro favore, se estese a neri e ispanici; un programma pluriennale poco credibile, perché ambizioso e demagogico.

Le difficoltà si innestano sulle debolezze strutturali di quella che era, prima del sorpasso cinese, la maggiore economia del mondo: diseguaglianza elevata e crescente, dinamica della produttività, bassa propensione familiare al risparmio, pluridecennale disavanzo di bilancia dei pagamenti, alto debito pubblico, cronica posizione passiva del Paese verso l’estero (60% del Pil), segnatamente nei confronti di Giappone, Cina, Germania.

Se dagli squilibri e dalle scelte degli Stati uniti emergesse una rinnovata tendenza al rialzo dei tassi d’interesse internazionali le conseguenze sarebbero oltremodo pesanti per l’economia italiana, impegnata in un arduo Piano di rilancio dopo un quarto di secolo di ristagno, con un debito pubblico che già travalica il picco storico (160% del prodotto) toccato dopo la prima guerra mondiale.

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