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I paesi poveri all’attacco: non vogliamo più pagare per i danni causati dai ricchi

I paesi poveri all’attacco: non vogliamo più pagare per i danni causati dai ricchiL’accoglienza di Fridays for future alla Cop26 di Glasgow – Getty Images

Il blocco dei 46 paesi definiti «meno avanzati» (Pma) sostiene la posizione più avanzata alla conferenza internazionale sul clima. Queste nazioni, con oltre un miliardo di abitanti in Africa, Asia-Pacifico […]

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 2 novembre 2021

Il blocco dei 46 paesi definiti «meno avanzati» (Pma) sostiene la posizione più avanzata alla conferenza internazionale sul clima.

Queste nazioni, con oltre un miliardo di abitanti in Africa, Asia-Pacifico e Caraibi, hanno le minori responsabilità storiche e attuali del caos climatico e al tempo stesso ne sono le principali vittime, sia per la maggiore sensibilità dei loro ecosistemi sia per la minore disponibilità di risorse da spendere.

«ALLA COP26 NEGOZIAMO per la sopravvivenza delle generazioni attuali, non solo di quelle future», ha precisato Sonam P. Wangdi, presidente del gruppo dei 46 Pma e responsabile della politica climatica del Bhutan – il piccolo Stato himalayano che anni fa inventò l’indice della Felicità interna lorda.

Wangdi ha ricordato che le isole del Pacifico sono già in parte sott’acqua, il Madagascar è nella morsa della sete e della fame («carestia da cambiamenti climatici» secondo l’Onu), e in Bangladesh gli sfollati per le inondazioni sono milioni. Dunque, «le emissioni globali devono essere dimezzate entro il 2030 – con una suddivisione equa dello sforzo globale – così da non fallire l’obiettivo di limitare l’aumento della temperatura entro la soglia critica di 1,5°».

ALCUNE SETTIMANE FA, il blocco dei 46 paesi ha adottato la Thimphu Call for Ambition and Action on Climate Change (pdf), nella quale si invita la comunità internazionale «e in particolare i paesi del G20 ad accrescere i propri impegni». Ma il vertice che ha riunito a Roma i più potenti (responsabili insieme dell’80% delle emissioni totali) ha deluso, fra gli altri, il presidente dell’Alleanza dei piccoli Stati insulari secondo il quale l’obiettivo di limitare a 1,5° l’aumento della temperatura rispetto all’era preindustriale è tuttora lontano, perché le dichiarazioni «non sono accompagnate da veri piani» e questo «a causa dell’influenza di potenti settori privati». E secondo Wangdi, «i passi avanti non sono sufficienti»; inoltre «i meccanismi di mercato dell’articolo 6 degli accordi di Parigi non devono minare il cammino verso gli obiettivi, dunque occorre evitare scappatoie e doppi conteggi».

La nave di Greenpeace alla Cop26, foto Getty Images

 

DEL RESTO, SECONDO l’Emission Gap Report 2020, anche se gli attuali piani nazionali fossero pienamente applicati, le emissioni globali aumenterebbero del 16% da qui al 2030. Nell’appello di Thimphu le priorità sono chiare: da un lato aumentare le ambizioni di riduzione per arrivare a zero emissioni nette ben prima del 2050, dall’altro riconoscere le perdite e i danni subiti dai paesi più vulnerabili, rispettando gli impegni in materia di finanza per il clima.

IL PIATTO PIANGE. Nel 2009, a Copenaghen, i paesi più abbienti si impegnarono a trovare da fonti pubbliche e private, per i paesi in via di sviluppo, 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 (e nel 2015 alla Cop di Parigi si impegnarono a continuare fino al 2025), per le misure di adattamento, per il risarcimento dei danni e per lo sviluppo delle economie – uscire dalla povertà senza basarsi sul fossile.

Non è aiuto: chiamiamola restituzione internazionale, viste le responsabilità del Nord. «Qui non si tratta di carità. Pagate o moriremo tutti» ha detto seccamente Lazarus Chakwera, presidente del Malawi. Ma l’impegno preso non è stato raggiunto: mancano 20 miliardi all’anno e inoltre, come ha fatto notare l’appello di Thimphu, «la finanza ha preso prevalentemente la forma di prestiti, ha dato priorità alla mitigazione rispetto all’adattamento, non ha raggiunto i Pma nella quantità necessaria». Per Wangdi, «il nuovo obiettivo deve essere basato sui bisogni attuali dei nostri paesi e su quanto occorre per passare a tecnologie low-carbon, adattarci agli impatti dei cambiamenti climatici, affrontare le perdite e i danni che questi ci procurano, inevitabilmente», visto che «decenni di inazione non rendono più possibile una mitigazione senza danni, costi e perdite».

SECONDO L’UN Adaptation Finance Gap Report, se per i piani di azione climatica (Ndc) dei Pma si stima un costo di 7 miliardi di dollari all’anno, per l’adattamento ai cambiamenti climatici nei paesi in via di sviluppo si calcolano 70 miliardi all’anno, che potrebbero salire a 140-300 nel 2030, e infine i costi per le perdite e i danni sono stimati, nei soli paesi in via di sviluppo, fra i 290 e i 580 miliardi di dollari da qui al 2030.

Sulla questione, Legambiente rimprovera il G20 e l’Italia: «Il Patto per il clima formalizza quanto già acquisito senza prevedere impegni concreti sulla finanza climatica, a partire dall’Italia che non ha messo sul tavolo il suo giusto contributo – almeno 3 miliardi l’anno».

A Glasgow si deciderà la finanza per il clima post-2025.

INTANTO LA NAVE di Greenpeace non rispetta il divieto delle autorità e fa rotta verso Glasgow trasportando giovani attivisti di Fridays for Future provenienti dai Mapa: acronimo inglese per «popoli e aree più colpiti».

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