«I Mojahedin non sono l’anima della nostra rivoluzione»
Iran L’attivista 28enne Nazanin parla del ruolo crescente del Mek all’estero. Ma non in patria: «Divisi per genere, donne velate: non combattono per la libertà delle donne ma per il potere»
Iran L’attivista 28enne Nazanin parla del ruolo crescente del Mek all’estero. Ma non in patria: «Divisi per genere, donne velate: non combattono per la libertà delle donne ma per il potere»
L’establishment iraniano continua assiduamente ad accusare l’ingerenza dei paesi stranieri nei recenti eventi del paese. Ai gruppi di opposizione all’estero viene imputato di essere al soldo di stranieri per destabilizzare l’Iran per i loro fini.
Il dito dei governati iraniani è puntato, in particolare, sul Mojahedin-e-Khalq (Mek), l’organizzazione più nota tra gli oppositori guidata da Maryam Rajavi.
L’assidua attività politica di Rajavi presso l’amministrazione americana e varie cancellerie europee viene presentata dal regime come un’inconfutabile prova di essere collegata ai poteri forti che complottano contro il paese.
Il sito di Mek riporta anche un incontro di Rajavi con il Senato italiano lo scorso 8 dicembre, promosso dai senatori Giulio Terzi e Marco Scurria. Gira in questi giorni sui social media un comunicato firmato da «I leader sul campo» che affronta questione della leadership, organizzazione, ruolo delle forze armate. Alcuni analisti iraniani attribuiscono la paternità del comunicato al Mek.
Nazanin, lei è un’attivista politica d’opposizione all’interno del paese e, a soli 28 anni, ha un dottorato in scienze politiche con studi specifici sulle organizzazioni d’opposizione iraniane in diaspora. Come valuta l’influenza del Mek sui recenti eventi nel paese?
È del tutto ingenuo pensare che gli affiliati al Mek non siano tra noi. Hanno confidenti anche all’interno del sistema governativo e di sicurezza dello stato. Basta fare una ricerca su internet per vedere le azioni terroristiche compiute. È logico pensare che ciò non sarebbe stato possibile senza una rete di informazione e logistica all’interno del paese. Ma è altrettanto ingenuo pensare che tutto ciò che è successo in questi tre mesi sia stato fomentato dal Mek. È vero che il Mek ha un’enorme disponibilità economica, è collegato a forti gruppi che possono influenzare le decisioni in molti paesi, ha un sistema propagandistico molto sviluppato. Ma non ha il favore del popolo, anzi suscita un certo odio diffuso tra la gente per il loro tradimento durante la guerra Iran-Iraq e per la loro alleanza con i sauditi. Possono però influenzare indirettamente il movimento, specialmente attraverso l’uso dei loro media. E la presenza dei loro affiliati, a mio parere, è pericolosa per il movimento: sono addestrati, sanno come strumentalizzare la rabbia del pubblico, incitare alla violenza. La loro storia prova che sacrificheranno tutto per raggiungere il loro scopo. Tuttavia, malgrado l’enorme sforzo, il loro peso è marginale.
Però sembra che la Repubblica islamica consideri il Mek il nemico numero uno tra i dissidenti all’estero.
La Repubblica islamica ha sempre ingigantito il nemico per giustificare le sue nefandezze agli occhi dell’opinione pubblica. Il carattere autoritario, il mancato rispetto dei diritti umani e l’ottusa indisponibilità al compromesso ha dato linfa vitale ai gruppi di opposizione. L’opinione pubblica mondiale si scuote davanti ai crimini commessi contro la popolazione e mette sotto pressione i suoi rappresentanti istituzionali all’estero. Così i politici occidentali sono costretti a dare spazio ai dissidenti e alle organizzazioni di opposizione, molto spesso senza avere una minima idea della loro base popolare nel paese. Queste azioni sono una forma di «fare qualcosa per non agire». L’incontro del presidente francese Macron con i dissidenti iraniani ne è un palese esempio. «La Francia sostiene la rivoluzione», «Il presidente incontra l’anima della rivolta iraniana»: sono i titoli di giornali del giorno dopo l’incontro. Tutto uno spettacolo «democratico» a uso e consumo dell’opinione pubblica.
È ovvio che la Francia non sostiene un cambiamento del regime in Iran nei fatti concreti: l’anima del movimento non può essere fuori dal suo corpo. Le opposizioni e specialmente il Mek sanno sfruttare questi momenti, ecco perché i loro rappresentanti girano come farfalle attorno ai politici di mezzo modo. Dall’altra parte il regime sfrutta questi momenti per legittimare l’oppressione, arresta e tortura i giovani perché hanno inviato un video a «l’anima della rivolta» che è un collaboratore dei servizi francesi o, peggio, manda al patibolo un ragazzo con accusa di avere connessione con il Mek, considerati i servi di Usa e Israele.
Ma c’è un altro fatto importante: dopo l’alleanza con i sauditi pubblicamente annunciata da Turki bin Faysal, ex direttore dell’intelligence saudita nel 2016, sembra che il Mek sia diventato la mano operativa dei servizi sauditi e israeliani sul campo. La questione nucleare, gli arsenali missilistici iraniani e l’ottusità del nostro regime preoccupano molto israeliani e sauditi, due dei principali alleati Usa. Allora usano il Mek, che ha l’ambizione di giungere al potere, per mettere sotto pressione la Repubblica islamica. A mio parere sauditi, israeliani e americani sanno benissimo che il Mek, senza una base popolare, non può essere un’alternativa alla Repubblica islamica e un vuoto di potere in Iran dopo l’eventuale caduta del regime potrebbe portare a scenari decisamente non favorevoli ai loro interessi nell’area geografica.
Che idea hanno del Mek i giovani in piazza?
La conoscenza dei nostri ragazzi è basata sui racconti delle loro famiglie, tuttavia internet è stato uno strumento importante nella loro formazione. Forse, rispetto ai genitori, non hanno un sentimento molto negativo ma sono riusciti a farsi un’idea, bypassando i filtri digitali, raggiungendo il sito dell’organizzazione. Forse i giovanissimi non hanno ancora la capacità analitica dei documenti politici ma vedono i video dei loro congressi, sembra di essere in Corea del Nord: tutti vestiti uguali, divisi tra donne e uomini, interventi costruiti, applausi programmati. Dicono di combattere per la libertà delle donne, ma tutte le loro donne indossano rigorosamente il copricapo.
Si chiedono se sia possibile che in quell’enorme platea non ci sia neanche una donna che abbia scelto di non avere il velo. Si chiedono come può un’organizzazione che in 45 anni ha avuto solo due presidenti – il marito e dopo la moglie – garantire uno stato democratico e pluralistico. Personalmente ritengo che il loro credo nella lotta armata rappresenti un pericolo per l’Iran: dobbiamo fare in modo che il movimento non prenda questa direzione. Dobbiamo essere pazienti e non cadere nel tentativo di imboccare scorciatoie il cui il costo può essere pesantissimo.
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