I missili del day after seminano panico e blackout nelle città
Dopo le massicce dosi di terrore e distruzione inflitte alle città ucraine nella giornata di lunedì in rappresaglia all’attacco contro il ponte di Kerch, ieri le forze russe hanno continuato a colpire infrastrutture civili e militari ucraine con raid aerei e lancio di missili a lunga gittata. Un day after a metà, quindi, in cui si registrano nuovi pesanti danni alla rete elettrica, con conseguenti blackout in particolare nella regione occidentale di Leopoli, finora rimasta ai margini del conflitto. Colpita anche la centrale termica di Ladyzhyn nell’oblast di Vinnytsia. Sirene, allarmi delle autorità ed esplosioni hanno riguardato ancora sia Kiev che Zaporizhzhia, la città occidentale di Rivne e quella meridionale di Kryvyi Rih. Chiara la strategia del terrore perseguita dal nuovo braccio armato di Putin in Ucraina, il generale Sergei Surovikin, fresco di nomina alla guida delle operazioni.
IL NUMERO DELLE VITTIME civili causate dai raid di lunedì è salito a 19, i feriti sono oltre 100. Proseguono poi i macabri ritrovamenti nelle città strappate all’occupazione russa. La procura generale di Kiev comunica che tra i 78 corpi esumati nella regione orientale di Donetsk ci sono anche dei minori, tra cui una bimba di un anno seppellita con i familiari. Alcuni corpi riportano segni di morte violenta. Altri 44 cadaveri sono stati ritrovati a Lyman e 34 a Sviatohirsk.
Sul campo, dopo le ultime disfatte russe la situazione sembra tendere verso un nuovo stallo. Il capo dell’intelligence britannica Jeremy Fleming però ieri si è sbottonato quanto basta per dire che le truppe di Mosca sono a corto di munizioni e rifornimenti.
Sull’altro versante la Casa bianca fa sapere di aver velocizzato l’invio di due sistemi di difesa antiaerea di ultima generazione (National Advanced Surface-to-Air Missile Systems – NASAMS) che si aggiungono a quelli in arrivo dalla Germania. Nuove forniture che secondo il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov «renderanno il conflitto più lungo e doloroso per l’Ucraina». In questo quadro, lasciano il tempo che trovano le dichiarazioni del ministro degli Esteri russo Lavrov, che non esclude un faccia-a-faccia di Putin con Biden, se mai venisse proposto, al G20 in programma a novembre.
Smentito più volte e da più parti, il rischio di escalation nucleare resta sospeso a mezz’aria: il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, assicurava ancora ieri che «l’arsenale nucleare russo viene attentamente monitorato».
L’INCUBO RADIOATTIVO aleggia anche sull’ormai celebre impianto di Zaporizhzhia, al centro ieri dell’incontro a San Pietroburgo tra Vladimir Putin e il capo dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), Rafael Grossi. Il presidente russo si è detto addirittura «felice di discutere tutte le questioni che sono di reciproco interesse e che per qualcuno sono fonte di preoccupazione», augurandosi che l’azione dell’Aiea – Grossi si è limitato a difendere gli sforzi dell’agenzia «per prevenire un incidente nucleare» – possa ridurre «l’eccessiva politicizzazione» che agita le acque intorno alle attività della centrale. Un surreale volto dialogante, quello esibito ieri da Putin, dopo il decreto presidenziale con cui aveva incorporato l’impianto atomico più grande d’Europa, insieme alla provincia di cui fa parte, negli asset della Federazione russa.
Tra l’altro da ieri anche il vicedirettore della centrale, Valeriy Martynyuk, sarebbe detenuto in un luogo imprecisato. Stessa sorte era toccata giorni addietro all’ormai ex direttore dell’impianto, Igor Murashov, arrestato e poi espulso con l’accusa di passare informazioni sensibili ai servizi ucraini.
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