«E l’Italia che ne pensa di inviare i propri soldati qui?» chiede Sasha mentre beve il tè. Siamo in uno scantinato di Siversk, in quella che una volta era la dispensa per le conserve e gli insaccatati. La famiglia che abitava nella casa ora semidistrutta è stata evacuata più di un anno fa e lo scantinato è stato riadattato ad alloggio per la piccola unità di Stepàn, ex manager di un’azienda pubblica e ora comandante di un reparto di Difesa territoriale.

SASHA PRIMA DELLA GUERRA faceva l’insegnante di inglese e ci tiene a parlare sostituendosi al traduttore. «Con i soldati della Nato la guerra finirebbe subito» insiste. Gli spieghiamo che ci sembra impossibile, che la guerra si estenderebbe a dismisura e diventerebbe un conflitto mondiale. Ma per i militari ucraini quest’affermazione non ha molto senso: se combattono loro perché non possono combattere anche gli altri? D’altronde «Putin non si fermerà, se dovesse vincere qui continuerà con i Paesi baltici e poi con la Polonia» dice Nikola, che mentre parliamo inglese controlla sullo smartphone le ultime novità in fatto di accessori per la pesca d’altura. Sono tutti d’accordo che l’Ucraina è solo il primo passo di un progetto più ampio. Una sorta di assalto all’Occidente, del quale loro, come ucraini, si sentono il baluardo. In questo caso governo e militari condividono le stesse parole d’ordine, segno che la comunicazione governativa ha funzionato. Nei rari momenti di pausa nelle prime linee al fronte c’è sempre qualcuno dei soldati che ti chiede «e tu che ne pensi?». In realtà vogliono sapere che ne pensiamo noi, e quel plurale indica gli italiani, i francesi, i tedeschi, noi Occidente insomma. «In Italia ci sono molti filo-putiniani?». Altra domanda ostica, bisognerebbe spiegare che non ragioniamo allo stesso modo, che da noi non essere dalla parte dell’Ucraina non vuol dire per forza – o non dovrebbe – essere dei fanatici filo-putiniani.

MA PARLARE DI PACE a delle persone che ogni volta che ricevono un ordine via radio devono uscire allo scoperto, guidare attraverso una strada senza ripari, puntare il cannone semovente da 57mm e sparare nella speranza di colpire il bersaglio e, soprattutto, di tornare alla base vivi e interi sembra anacronistico. Do peremohe, dice il giovane Dmitry, come se fosse un brindisi, «alla vittoria». I soldati annuiscono gravi, poi ricominciano a ridere ricordando Berlusconi, «erano grandi amici con Putin eh? Pensa che festini ai tempi d’oro».

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L’ORDINE DI POSIZIONARE il cannone non arriva, uscire per strada è pericoloso a causa dei droni e si rischia di essere individuati e seguiti mandando all’aria la copertura dell’intera unità. E intanto gli scambi di artiglieria dalla distanza continuano. Quindi si resta sottoterra a scaldarsi vicino alla stufa di ghisa. I letti a castello, «costruiti dal maestro Nikola», sono ricavati dalle porte della casa in superficie. Chi sta sulla branda in alto non si è neanche messo l’uniforme e sorseggia il tè in calzamaglia verde. Per quanto la situazione possa essere disperata, non credo che sia mai capitato che dei soldati non ci abbiano offerto qualcosa. Sono inviti sinceri, non vogliono ingraziarsi l’ospite e si offendono se rifiuti. «Meloni è dalla nostra parte, no? Non come quello con la maglietta di Putin…» prova a riprendere Sasha. «Il fatto» lo interrompe Stepàn, «è che qui la situazione non cambierà finché non ci danno gli aerei». Sono tutti d’accordo. «Un anno fa hanno detto che era deciso. E allora? L’addestramento è solo una scusa, mica i nostri piloti sono più scemi degli altri».

DMITRY È AL FRONTE da un mese e nell’esercito da quattro. È l’autista dell’unità e data la sua giovane età è la mascotte del gruppo. Ci raccontano che il giorno prima quasi gli è preso un colpo quando stavano andando a posizionare il cannone e a un certo punto nell’abitacolo è partita una canzone metal a tutto volume. «Come si chiamano quegli psicopatici?» chiede Sasha, «Rammstein, Du Hast» risponde Dmitry, una hit su tutto il fronte ucraino. Dei boati più rumorosi fanno tremare il soffitto. Guardiamo i soldati per capire se è il momento. Ma dipende da Stepàn, è lui che riceve le comunicazioni via radio e solo lui sa le coordinate. Saliamo anche noi e lo troviamo intento a pulire i grossi proiettili da 57mm nelle scatole di legno. «Sono cechi» spiega. E dietro di lui ce ne sono decine di casse. Ogni salva è da 4 e si caricano a mano. Ma non si sta preparando per uscire, «è solo per fare qualcosa». Da quando i droni russi controllano i cieli sopra le postazioni ucraine le attese sono diventate molto più noiose, confinate nello spazio di pochi metri, sempre le stesse facce davanti. Alla fine l’ordine non arriva e ormai si è fatto buio. I militari tornano sottoterra e noi ci avviamo verso la strada fangosa che riporta a Kramatorsk.