I migranti seviziati in Libia: «È lui il nostro aguzzino»
Ghanese arrestato Le testimonianze agghiaccianti raccolte dalla polizia di cinque africani scampati alle torture. E a Lampedusa è quasi linciaggio
Ghanese arrestato Le testimonianze agghiaccianti raccolte dalla polizia di cinque africani scampati alle torture. E a Lampedusa è quasi linciaggio
ALFREDO MARSALA
Palermo
Una delle torture peggiori si consumava dentro una stanza squallida in diretta al telefono: padri, madri e mogli costretti ad ascoltare le grida di dolore dei propri cari mentre supplicavano di mandare i soldi ai trafficanti di uomini che intanto colpivano la vittima, facendola urlare fino allo sfinimento, lasciando segni indelebili nel corpo e soprattutto nell’anima. «Ogni volta che dovevo telefonare a casa, lui mi legava e mi faceva sdraiare per terra con i piedi in sospensione e cosi, immobilizzato, mi colpiva ripetutamente e violentemente con un tubo di gomma in tutte le parti del corpo e in special modo nelle piante dei piedi tanto da rendermi poi impossibile camminare».
A raccontare l’orrore delle sevizie all’interno dei campi di prigionia in Libia dove i migranti rimangono per mesi in attesa di salire nei barconi in partenza nel canale di Sicilia sono cinque africani, le cui testimonianze hanno consentito agli agenti della squadra mobile di Agrigento di arrestare un ghanese di vent’anni, Eric Ackom Sam, accusato di associazione per delinquere finalizzata alla tratta, sequestro di persona, violenza sessuale, omicidio aggravato e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Sbarcato il 5 marzo a Lampedusa, il ghanese è arrestato dopo che alcune delle vittime delle torture subite in Libia lo hanno riconosciuto, accusandolo di essere l’uomo che li avrebbe seviziati prima di imbarcarsi nel viaggio in mare ed essere poi soccorsi e condotti a Lampedusa. I poliziotti hanno bloccato il ghanese sottraendolo a un vero e proprio linciaggio che si stava consumando nel centro di accoglienza dell’isola delle Pelage. Le testimonianze raccolta dagli investigatori, coordinati dalla Procura di Palermo, sono agghiaccianti: «Spesso collegava degli elettrodi alla mia lingua per farmi scaricare addosso la corrente elettrica» racconta un africano; «porto ancora addosso i segni delle violenze fisiche subite, in particolare delle ustioni dovute a dell’acqua bollente che mi veniva versata addosso”, riferisce un altro dei testimoni. Un nigeriano di 21 anni si sfoga con i poliziotti: “Ricordo le torture subite da tutti i miei carcerieri e, in maniera particolare, quelle che mi furono inflitte dal ghanese ‘Fanti’, quello che, in maniera spregiudicata e imperterrita, picchiava più degli altri carcerieri». E riferisce di avere assistito «ad analoghe torture pote da Fanti ad altri migranti».
«Ho visto trattamenti anche eggiori, come le torture esplicitate mediante utilizzo di cavi alimentati con la corrente elettrica – si legge nell’informativa della polizia – Tale trattamento, però, veniva riservato ai migranti ritenuti ribelli».
La violenza in alcuni casi sarebbe sfociata nell’omicidio. «Durante la mia permanenza – rivela il nigeriano – ho sentito che l’uomo che si faceva chiamare ‘Rambo’ ha ucciso un migrante. So che mio cugino e altri hanno provato a scappare e che sono stati ripresi e ridotti in fin di vita, a causa delle sevizie cui sono stati sottoposti. Temo che anche lui sia stato ucciso». A volte i carcerieri usavano anche le armi per mettere paura ai prigionieri: «Sparavano in aria per farci intimorire», raccontano.
Un altro testimone, anche lui nigeriano e vittima di ‘Fanti’, sentito dai pubblici ministeri Gery Ferrara e Giorgia Spiri coordinati dal procuratore capo Francesco Lo Voi, racconta della casa-ghetto: «Eravamo in mezzo al deserto, era una grande struttura, recintata con dei grossi e alti muri in pietra, che era costantemente vigilata da diverse persone, di varie etnie, armati di fucili e pistole». E parlando di Fanti, l’arrestato, racconta: «Era uno che spesso, in modo sistematico picchiava e torturava noi migranti. Fanti era membro di questa organizzazione di trafficanti al cui vertice c’era Alì, il libico». Anche lui ha dovuto pagare per essere rilasciato e proseguire la sua rotta verso l’Italia. «Ogni giorno telefonavano alla mia famiglia – dice agli investigatori – e mentre avanzavano a mio fratello le loro richieste estorsive, consistenti nella richiesta di denaro, mi torturavano e mi seviziavano, in maniera tale da fargli sentire le mie urla strazianti. Dopo cinque mesi di lunga prigionia e sistematiche violenze, mio fratello gli fece avere 200 mila cfa (la moneta locale), anche se loro ne avevano chiesto 300 mila.
Gli investigatori, per alcuni reati consumati interamente all’estero, hanno potuto procedere sulla base di una richiesta del ministro della Giustizia. Riferendosi ai testimoni, il capo della mobile di Agrigento, Giovanni Minardi, parla di «lezione di non omertà». «Una lezione – dice il poliziotto – che deve essere d’esempio per gli agrigentini, molto spesso restii a collaborare». I migranti, in Libia, venivano tenuti rinchiusi in quattro container: tre per uomini e uno per donne e bambini. Circa 800 le persone prigioniere. Quella per i profughi avrebbe dovuto essere una «tappa intermedia» prima del viaggio verso le coste italiane. In realtà i migranti venivano sequestrati. E così sarebbero rimasti fino a quando non pagavano, dopo avere versato i soldi del viaggio, il prezzo per la loro liberazione. E per farli pagare venivano torturati, seviziati e sottoposti a stupri di gruppo.
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