ExtraTerrestre

«I migranti rianimano le nostre terre»

Intervista Il sociologo Andrea Membretti, fra gli autori del libro «Montanari per forza», uno studio che si è concentrato sul fenomeno dei richiedenti asilo distribuiti in territori normalmente dimenticati

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 10 gennaio 2019

Macedoni e albanesi che praticano la transumanza sull’appennino centrale, manovali cinesi che portano avanti l’edilizia rurale nel cuneense, rumeni che nel Friuli gestiscono lo sfalcio dei boschi. E’ da circa vent’anni che cittadini stranieri hanno cominciato a insediarsi nelle cosiddette terre alte, andando ad occupare nicchie economiche ed abitative abbandonate dalla popolazione originaria. Sono il prodotto di un flusso migratorio partito inzialmente dai balcani, ma che ha poi interessato il Nord Africa e tutti quei paesi con una forte necessità migratoria. Un fenomeno consistente, che per esempio vede insediati ufficialmente sull’arco alpino 350 mila residenti stranieri, e che in moltissimi casi ha contribuito a contrastare lo spopolamento e mantenere, quando non a rilanciare, le economie delle aree di montagna alpine ed appenniniche.

Ciononostante di cosa è successo in questi luoghi che sono in qualche modo rinati o non sono morti grazie all’arrivo degli stranieri, si parla poco: pionieristico in questo senso è stato il lavoro dell’associazione «Dislivelli», network di ricercatori universitari, giornalisti ed operatori specializzati nel capo delle alpi e della montagna, che ha cominciato ad interessarsi al ruolo nello sviluppo locale dell’immigrazione straniera nelle Alpi e negli Appennini. Ma mentre i ricercatori erano ancora nel pieno di questa riflessione sui nuovi rapporti socio-economici venutisi a creare, ecco che questi territori vedono l’arrivo di un altro tipo di migranti: i richiedenti asilo, persone non approdate alla ricerca di un’opportunità in risposta a un richiamo locale, ma collocate in base a un sistema di accoglienza, quello messo in campo dal precedente governo che cercava di diluirne il più possibile l’impatto distribuendo i migranti nelle aree interne (sistema che poi sarebbe diventato il modello SPRAR e dei CAS).
Ecco quindi sorgere un’altra categoria di migranti e altre dinamiche che un libro appena uscito, Montanari per forza (Franco Angeli Editore) cerca di inquadrare. Fra gli autori il sociologo Andrea Membretti, che fin da subito ha dovuto confrontarsi con questo fenomeno e la nuova attenzione mediatica e politica che esso suscitava su territori normalmente dimenticati da tutti.

Quando sono cominciate le vostre osservazioni?

Abbiamo cominciato a studiare il tema dell’immigrazione straniera nelle aree di montagna circa tre anni fa, quindi possiamo dire che stiamo osservando l’arrivo dei richiedenti asilo fin dall’inizio. Gruppi che vanno dalle 20 alle 50 persone, in gran parte africani, per i quali sono stati utilizzati spazi di risulta: alberghi abbandonati, caserme dismesse, rifugi; mandati lì non perché qualcuno li volesse, ma solo perché costava meno, e dove a causa della rarefazione sociale i contrasti con la popolazione locale erano ridotti.

Come si è sovrapposto questo fenomeno ai rapporti economico-sociali che già stavate studiando?

Per noi è stato un punto di svolta perché ci siamo resi conto che il modello SPRAR ha dato la possibilità ad alcuni comuni di inventarsi dei progetti di accoglienza che contemporaneamente potevano rivitalizzare il territorio. In questo senso l’esperienza di Mimmo Lucano a Riace non è stata l’unica: i sindaci di molti piccoli comuni di montagna hanno capito che potevano drenare le risorse pubbliche dal sistema di accoglienza verso il territorio favorendo occupazione e sviluppo locali: processi di integrazione, corsi di formazione , cooperative di lavoro, filiere a km zero : il tutto con numeri limitati ma comunque significativi per le economie di queste terre lasciate ai margini dalle politiche nazionali.

I fattori che determinano il funzionamento di questi esperimenti sono sicuramente molti e diversificati, ma è possibile individuare alcune direttrici comuni?

Sicuramente un ruolo fondamentale lo giocano la capacità e il coraggio delle amministrazioni locali, nel momento in cui hanno l’intelligenza di capire la correlazione fra immigrazione, anche temporanea, e sviluppo locale. E’ importante anche la presenza di una società civile: spesso questi territori sono depauperati, la popolazione è per la maggior parte anziana e sparpagliata nelle frazioni, mentre per far funzionare queste sperimentazioni serve la sopravvivenza di un tessuto sociale minimo e coeso. Inoltre sono favorevoli i numeri bassi, proporzionati con la popolazione locale. Non ultima, la capacità di fare alleanza con altri comuni arrivando a costituire una rete di soggetti che si supportano reciprocamente.

Quali sono invece i loro limiti?

Per prima cosa la dipendenza dai finanziamenti: la maggior parte di questi progetti non ha ancora raggiunto un’autonomia finanziaria; anche se in alcuni casi producono beni e servizi, le entrate non compensano le uscite. Sono da considerarsi delle forme di mercato protetto, delle economie sociali ibride, che hanno ancora bisogno di un accompagnamento. Dal nostro punto di vista rappresentano delle innovazioni economiche e sociali e bisognerebbe andare nella direzione di un loro sostegno anziché in quella di un taglio indiscriminato come quello previsto dal Decreto Sicurezza: in questo senso la riduzione da 35 a 20 euro dei fondi destinati all’accoglienza rischia di far morire anche queste esperienze virtuose. Un altro limite è costituito dalla provvisorietà della permanenza: diversamente dai migranti economici, la maggior parte dei richiedenti asilo nel momento in cui gli viene riconosciuta una forma di protezione lasciano questi territori per raggiungere le città dove hanno più relazioni, mentre nei piccoli comuni montani non trovano una comunità pre-esistente della loro nazionalità. E questo è un peccato nel momento in cui l’Italia è uno dei pochi paesi che consente ai richiedenti asilo di lavorare dopo soli due mesi dalla richiesta. Se con l’accoglienza si riescono ad innescare dei percorsi che prevedono anche uno sbocco lavorativo si consente a queste persone di fermarsi, di creare nuove comunità anziché affollarsi nelle grandi città. Per esempio, a Berceto, sull’appennino tosco-emiliano, è stata aperta una cooperativa per il taglio dei boschi e la vendita della legna: ora chissà cosa succederà in seguito alla riduzione dei fondi.

Quanti sono i richiedenti asilo ospitati nei comuni di montagna?

I dati relativi alla fine 2016 inizio 2017 mostrano che su un totale di circa 130 mila richiedenti asilo, quelli inseriti negli SPRAR e CAS dei comuni considerati di montagna, ovvero al di sopra dei 600 metri, sono il 40 % . Stiamo parlando di un fenomeno di tutto rispetto che oltre ad essere sottovalutato non è stato tematizzato. Da parte del governo precedente non c’è stata la capacità di capire e raccontare quello che stava succedendo in questi territori, ha prevalso la narrazione sul richiedente asilo urbano e la gara di prese di posizione sul terreno della sicurezza. Il messaggio che cerchiamo di far passare noi è che i migranti non ci impongono solo un imperativo solidale, ma rappresentano anche un’opportunità di sviluppo economico e tenuta demografica molto importante. Il governo attuale sembra andare in tutt’altra direzione, infatti i sindaci di molti di questi piccoli comuni sono molto preoccupati.

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