«Il cambiamento culturale in corso è una vera conquista che rimarrà nella mente dei nostri giovani qualsiasi cosa succeda. Ma da qui alla caduta della Repubblica islamica il passo non è breve».

M. A. è un sociologo iraniano, uno scrittore e un poeta. Con lui, residente nel paese, abbiamo discusso della rivolta in corso.

Qual è la dimensione delle proteste?

Come scriveva pochi giorni fa in un quotidiano nazionale Javad Haqshanas, già consigliere del governo sotto la presidenza Khatami, i giovani che vediamo per le strade rappresentano solo la punta dell’iceberg. Lo zoccolo duro è sottostante, composto dai genitori, che rimane vigile e aspetta il momento opportuno. Non sono immobili, sostengono i loro ragazzi. Scriveva Haqshanas: basta pensare a come reagiscono rapidamente quando un ragazzo o una ragazza viene arrestato. I giovani hanno fatto proprie le critiche e il malcontento dei genitori, poi hanno sperimentato sulla pelle, a scuola, all’università e per la strada. È ingenuo pensare che la loro capacità critica sia solo frutto di social media. Già il fatto che le manifestazioni siano relativamente piccole, ma molto diffuse e trasversali, è una lezione che hanno imparato dagli errori dei genitori. Credo che la massa critica abbracci moltissimi ceti sociali pur con diversità di vedute e rivendicazioni.

Cambiamento o rivoluzione?

Non credo che ormai il regime abbia più la capacità e la credibilità di attuare un cambiamento significativo. Hanno represso medici, insegnati e lavoratori, poi pretendono che tornino al loro lavoro come nulla fosse successo. Addirittura pochi giorni fa hanno arrestato il professor Dariush Farhoud, noto come il padre iraniano della scienza genetica, 85 anni; hanno interrogato Vahid Rajablo, un giovane affetto da SLA, vincitore del premio della Mostra di Tuan Tec. È stata scelta la repressione come soluzione. Ma più il regime reprime più diventa profonda la sfiducia. Sembra che non ci sia più una connessione tra gli apparati di sicurezza e la mente politica del paese. Non c’è stato un tentativo di mediazione. Tuttavia, un cambiamento è già palpabile: è vero che ancora non è avvenuta una trasformazione politica ma è in corso un vero cambiamento culturale. Oggi vedo studenti senza velo camminare per strada e noto lo sguardo, pieno di ammirazione, sostegno e solidarietà dei loro coetanei maschi. Tutti parlano e discutono di cambiamento, di rivoluzione, di manifestazioni. È un balzo culturale importantissimo in una società chiusa e profondamente patriarcale. Tutto ciò era impossibile appena sei settimane fa. Però da qui a una vera rivoluzione la distanza è notevole. La Repubblica islamica ancora gode della fedeltà degli apparati di sicurezza e di una marea di gente che dipende dal sistema. Molti settori produttivi non ritengono vantaggioso un rovesciamento dell’ordine costituito. A questi si aggiunge chi per convinzione religiosa o politica difende il sistema. Conquistare la loro fiducia verso una nuova rivoluzione non è proprio semplice. Dimenticare del tutto l’influenza religiosa all’interno di molte classi sociali è un’ingenuità.

Il movimento è compatto?

Il comportamento del sistema ha creato una grande massa critica ma questa massa non è uniforme, ognuno ha una sua rivendicazione e una sua idea di futuro dopo un eventuale rovesciamento del regime, perfino sul significato dello slogan «Donna, Vita, Libertà» ci sono divergenze. Si nota anche una diversità strategica importante su come portare avanti la lotta. Le tv satellitari legate a sauditi e israeliani già parlano di lotta armata, ci sono i video in cui insegnano come costruire armi in casa. Altri propagandano una lotta non armata e nonviolenta. C’è bisogno di tempo, il movimento deve necessariamente metabolizzare tutto questo e trovare la sua strada. In questa fase la vulnerabilità è altissima e il movimento può essere dirottato in qualsiasi direzione o perfino soffocato.

Qual è secondo lei il ruolo di milioni di iraniani all’estero?

Anche qui c’è una diversità importante. Ci sono milioni di connazionali all’estero che sinceramente e onestamente hanno il bene del paese nel cuore e tentano di essere la voce dei manifestanti e a mio parere fanno bene. Ma c’è una parte che tende a guidare e influenzare ciò che succede nel paese. È inaccettabile . Guardate la propaganda che arriva dall’estero. Purtroppo il regime ha creato mass media nazionali servili, senza contraddittori, di cui nessuno si fida. Così ha buttato la gente tra le braccia di canali radio e tv satellitari trasmessi dall’estero in lingua persiana che hanno peso e influenza. Molti di questi canali seguono la loro agenda che non ha nulla a che vedere con la libera informazione.