In uno dei rari cortei pro-Palestina non vietati del governo francese, uno striscione nero campeggia in mezzo al corteo. Sopra, c’è scritto a grandi lettere bianche: «Tsedek! Collettivo ebreo decoloniale». Tsedek: è la pronuncia del radicale ebraico צדק, che designa la «giustizia». Dall’inizio della guerra a Gaza, i membri di Tsedek hanno moltiplicato le iniziative, recandosi a tutte le manifestazioni e partecipando a decine di assemblee e conferenze in tutto il paese.

MAXIME, trentenne insegnante di liceo, fa parte del collettivo e come molti membri della comunità ebraica francese, la più grande d’Europa e seconda solo a quella statunitense, ha amici e un pezzo di famiglia in Israele. Per lui, come per altri del collettivo, questa connessione con Israele – a tratti familiare, a tratti generazionale – è la molla che ha fatto scattare il meccanismo della «desionizzazione», come la definisce.

«Ho dovuto rompere le mie cerchie sociali e familiari, cioè incontrare dei palestinesi – dice – per rendermi conto della realtà del sionismo concreto, attuale». Cita un incontro con Ayman Odeh, politico israeliano di etnia araba, capo del partito di sinistra Hadash e della Joint List. «Gli chiesi cosa significasse per lui sionismo. Mi rispose: concretamente, per noi palestinesi, sionismo significa prendere quanta più terra possibile con il minor numero di arabi dentro».

Questo sionismo in particolare, per Maxime, «non è qualcosa del passato ma è all’opera adesso, nel presente, mentre parliamo. A Tsedek siamo antisionisti perché consideriamo il sionismo un nazionalismo esclusivo e separatista, che non prevede alcun diritto o privilegio per chi non è ebreo. Perché io, che sono cittadino francese, avrei più diritti nello spazio della Palestina storica che un palestinese nato e cresciuto a Gerusalemme?».

Per Maxime e gli altri membri di Tsedek, la «lotta per l’uguaglianza di tutti» indipendentemente dall’appartenenza comunitaria, è «l’unico modo per assicurare la pace, la giustizia e la dignità per il popolo palestinese e allo stesso tempo per assicurare la sicurezza del popolo israeliano». E per arrivarci, è necessaria un’opera di «decolonizzazione» del territorio e delle mentalità. La militanza di Tsedek contrasta apertamente le istituzioni della comunità come il Crif, il Consiglio delle Istituzioni ebraiche francesi, l’organizzazione comunitaria più in vista e aggressivamente filo-israeliana.

IN QUESTE SETTIMANE di dibattito sull’antisemitismo, in cui il Crif ha giocato un ruolo centrale di raccolta attorno a sé della classe politica e mediatica francese, Tsedek ha denunciato la strumentalizzazione della lotta contro l’antisemitismo da parte dei politici francesi in chiave islamofoba.

Basti pensare al discorso fatto dal ministro degli Interni Gérald Darmanin a un evento organizzato dal Crif e da altre istituzioni comunitarie il 17 ottobre, dieci giorni dopo gli attacchi di Hamas: «L’odio per il poliziotto e l’odio per l’ebreo sono la stessa cosa», ha detto Darmanin, tracciando un parallelo per niente velato tra le rivolte dei quartieri popolari razzializzati contro la violenza della polizia e gli episodi di antisemitismo registrati nel paese.

Maxime e i suoi compagni, al contrario, militano assieme ai movimenti antirazzisti francesi, proprio per combattere l’idea che «gli ebrei sarebbero minacciati dall’immigrazione musulmana». Un’idea pericolosa, che accessoriamente avalla il riciclaggio dell’estrema destra, come testimonia la partecipazione del Rassemblement National alla manifestazione del 12 novembre contro l’antisemitismo.

In quell’occasione, Marine Le Pen – il cui partito è stato fondato da ex-membri delle Waffen SS e il cui padre è stato condannato per negazionismo della Shoah – era protetta da un servizio d’ordine costituito dalla Ligue de Défense Juive, una formazione sionista di estrema destra. Se questa confluenza rimane – per ora – confinata alle frange estreme della politica e della comunità ebraica francesi, in questi ultimi vent’anni le istituzioni come il Crif «si sono fortemente allineate sulla politica del governo israeliano, sempre più reazionaria e oggi guidata da un governo di estrema destra», dice Jean Stern, giornalista con un passato a Tel Aviv, ex caporedattore di Libération e membro della rivista Orient XXI.

Per Stern, questo «spostamento a destra d’Israele» ha amplificato delle linee di frattura già esistenti, antiche almeno quanto la creazione dello Stato ebraico. «La realtà coloniale in Palestina – dice – è una realtà che, col tempo, ha fratturato la comunità proprio sulla questione del sostegno a Israele».

L’attacco del 7 ottobre e la distruzione di Gaza hanno allargato la frattura e provocato l’emersione «delle altre voci ebree», come le definisce Stern, «in maniera inedita rispetto a quanto successo in altre occasioni dieci o venti anni fa». Voci del mondo giovanile «che riflettono sulle connessioni possibili tra la situazione Israele-Palestina e la situazione delle minoranze razzializzate in Francia, alla maniera nella quale la Francia le ha sempre represse».

QUESTE VOCI, per ora, rimangono marginali. In parte per mancanza di mezzi del calibro di quelli di cui godono istituzioni come il Crif, ma anche per una caratteristica insita al funzionamento della République, secondo Yael Lerer, attivista franco-israeliana, candidata alle elezioni con la Nupes e tra le fondatrici della Joint List. «In Francia – dice Lerer -gli ebrei laici tendono a essere disconnessi dalla propria judeité», al contrario per esempio degli Stati uniti.

Negli Usa «anche se non è religioso, un ebreo cresce tendenzialmente all’interno delle strutture culturali della comunità», strutture che invece non esistono o quasi in Francia, proscritte come sono dal modello integrazionista della République. È per questo, dice Yael Lerer, che in Francia non si assiste – almeno per ora – all’emergere di un attivismo di massa, interno alla comunità, contro le politiche israeliane, come invece accade in America.

Per ora, l’egemonia del Crif non sembra essere in pericolo. Nelle ultime settimane, l’istituzione comunitaria ha moltiplicato le iniziative volte a far tacere ogni voce critica del governo Netanyahu: valgano a titolo di esempio l’interdizione richiesta e ottenuta di una manifestazione contro l’antisemitismo organizzata dalla France Insoumise, o l’imposizione a Macron di un umiliante «chiarimento» dopo che questi aveva invocato un cessate il fuoco.

MALGRADO CIÒ, è impossibile occultare le fratture interne alla più grande comunità ebraica d’Europa. Se da un lato «un gran numero di ebrei francesi ha deciso di legare il proprio destino a quello di Marine Le Pen e Éric Zemmour», come ha scritto lo psicanalista ebreo Gérald Miller su Le Monde nel settembre scorso, dall’altro «c’è una gioventù ebraica francese» che si riconosce nelle lotte antirazziste e nel movimento per la Palestina, come ha detto alla tv il 14 novembre Michel Wievorka, sociologo ebreo all’Ehess.

Una gioventù che fa propria una rinnovata critica antisionista, la quale scaturisce da percorsi di vita meticci sulle due sponde del Mediterraneo, incrociandosi con le lotte antirazziste dell’ultimo decennio e con la grande ondata decoloniale che ha investito i movimenti francesi. Una gioventù che – parafrasando lo storico israeliano Shlomo Sand (L’invenzione del popolo ebraico, 2011) – ha tutta l’intenzione di «ripensare l’avvenire, prima che questo non si trasformi in incubo».